CANALE DI KRA: L’ULTIMO TASSELLO DELLA VIA DELLA SETA

di Edoardo Fazzini

La costruzione di un canale che attraversi la Thailandia è tema di dialogo da secoli: il progetto fu preso in considerazione per la prima volta nel Seicento, e da allora non ha mai abbandonato i tavoli del dibattito nell’area. Si tratta di una possibilità che porterebbe a cambiamenti imponenti per le economie del Vicinato e per le vie di comunicazione marittime globali, un’idea che è sempre rimasta tale per le sue estreme criticità ma che, negli ultimi anni, è stata rivalutata, attraverso un crescente aumento di interesse da chi più di tutti ne trarrebbe vantaggio: la Repubblica Popolare Cinese. Infatti, un accorciamento del tragitto navale di circa 1100 km tra il Golfo Persico e le coste cinesi permetterebbe di trarre guadagni enormi alla Cina che, grazie al proprio prestigio, potrebbe sfruttare le sue risorse per rendere il canale una realtà e, addirittura, per auto-attribuirsi l’esclusività di accesso, rendendo il progetto il tassello conclusivo della Belt and Road Initiative e completando la Nuova Via della Seta.

Fonte: eurasiareview. Mappa delle possibili rotte del Canale creata da Maximilian Dörrbecker.

Il punto individuato fin dalle origini del progetto come ideale per unire il Golfo di Thailandia all’Oceano Indiano è l’Istmo di Kra, area in cui le due coste distano mediamente circa 100 km. Alla distanza non proibitiva (per avere un termine di paragone, il Canale di Suez è lungo 193 km) si contrappone una prima criticità: il percorso totale dovrebbe passare per aree montuose, il che comporterebbe costi di realizzazione altissimi e un impatto ambientale devastante, conseguenze oggi equivalenti alle ragioni principali della non realizzazione.

Come riporta un articolo del TIME dell’aprile 2023, intere generazioni politiche hanno discusso la possibile realizzazione di un canale o di un ponte di terra, puntualmente abbandonando la proposta per le enormi problematiche, legate anche alla superiorità dell’altezza del Mare delle Andamane di tre metri rispetto al Golfo di Thailandia, fatto che richiederebbe molteplici chiuse. Sussiste anche un problema sociale: il canale porterebbe a una divisione della popolazione in due, una questione spinosa soprattutto per la presenza di gruppi separatisti nell’area sud che, a differenza del resto dello Stato, è abitata prevalentemente da musulmani. Per questa ragione l’attuale vicepremier e ministro degli interni Anutin si è dichiarato contrario alla creazione di un canale e favorevole a quella di un ponte, meno divisivo e anche meno dispendioso di un canale.

La stessa proposta è stata anche presentata dal Primo Ministro Srettha Thavasin, che ha posto l’obiettivo di completare il ponte entro il 2039; però, la problematica maggiore del ponte si manifesta nell’estrema complessità della sua realizzazione, nonché delle scarse prospettive di redditività economica. Queste sono delle criticità importanti, ma non bastano per potersi permettere di sottovalutare la questione, in primis perché gli interessi degli attori terzi nell’area sono più grandi che mai.

Fonte: AP Photo/ Wang Zhao, Pool, Rhea Menon, 2018, The Diplomat – Thailand’s Kra Canal: China’s Way Around the Malacca. Incontro a Pechino del dicembre 2014  tra l’ex primo ministro thailandese Prayut Chan-o-cha e il Presidente cinese Xi Jinping.

Accantonando tutte le criticità e immaginando la creazione del progetto, è evidente che si aprirebbero numerosi scenari nel medio e nel lungo termine. Innanzitutto, ipotizzare la costruzione del canale-ponte oggi significa presupporre che la Repubblica Popolare Cinese agisca in prima persona, mettendo all’opera molti suoi cittadini e finanziando direttamente i lavori. Infatti, la Cina riveste un ruolo di primo piano nell’area del Sud-Est asiatico, spesso vista proprio come il banco di prova della politica cinese. Pechino da anni si riferisce all’area come propria periferia e, forte del suo potere economico e dell’appoggio della classe politica locale, ha condotto operazioni sempre più aggressive, tra cui una crescente militarizzazione della zona.

L’interesse cinese sul canale di Kra è motivato in gran parte da questioni legate al commercio del petrolio: la Cina importa circa l’80% del proprio fabbisogno petrolifero, e specialmente via mare dal Medio Oriente e dal Golfo Persico attraversando lo Stretto di Malacca, punto di passaggio obbligatorio in cui l’influenza statunitense resta ancora dominante nonostante la crescita di potenza della Cina conseguente al costante aumento di navi cinesi in transito nel tempo. Il passaggio sicuro per le risorse importate sarebbe garanzia per Pechino, e la Thailandia si mostra ideale a questo scopo di fronte alla possibilità – remota ma preoccupante per l’establishment cinese – che un domani gli statunitensi possano bloccare i traffici passanti per Singapore e destinati a raggiungere la Cina. Immaginando quindi che il più ambizioso degli obiettivi cinesi si realizzi, bisogna comprendere la portata delle conseguenze internazionali.

Un primo elemento da prendere in considerazione è che, osservando l’agire di Xi Jinping, non è impensabile pensare che la Cina supporterebbe gli indipendentisti del sud della Thailandia con l’obiettivo di destabilizzare il paese per ottenere il controllo assoluto sul canale. Se Pechino decidesse di agire in modo meno diretto, senza inserirsi negli affari statali thailandesi così rigidamente, avrebbe comunque mezzi e strumenti per garantirsi il suo obiettivo. In questo secondo scenario, la Thailandia riuscirebbe a trarre vantaggi economici più sostanziosi dal canale, grazie al minor impegno in tensioni interne. In ogni caso, la Thailandia manterrebbe una sua influenza sul canale, che resterebbe soggetto alla sua giurisdizione a prescindere dai fattori internazionali. Ottenuto il pieno potere sul canale – ragionando in termini di canale e non di ponte in quanto progetto più frequentemente discusso -, le navi militari cinesi riuscirebbero a muoversi molto più velocemente verso l’Oceano Indiano. Ne conseguirebbe una più che probabile crescita della tensione sino-indiana con un conseguente aumento delle spese militari da parte dell’India.

Anche gli Stati Uniti prenderebbero le distanze dal progetto, osservandolo come una minaccia; quindi, crescerebbe la spesa militare nell’area. Chi ha più da perdere, come facilmente intuibile, è Singapore: il piccolo Stato ha costruito gran parte della propria fortuna sulla sua posizione strategica sullo Stretto di Malacca, e oggi il suo porto è il secondo più trafficato al mondo. Di fronte allo sviluppo del canale di Kra, Singapore assisterebbe a una drastica diminuzione del traffico commerciale e a una conseguente crisi delle economie dell’area, nonché dal punto di vista della sicurezza, come sottolinea uno studio dello US Army Command and General Staff College.

Fonte: The World Bank, 2018, Belt and Road Initiative. Carta pubblicata dalla World Bank che mostra le rotte commerciali cinesi parte della Belt and Road Initiative.

Al netto dell’analisi, è chiaro che la creazione di un canale-ponte in Thailandia potrebbe avere delle conseguenze importanti su scala globale, influenzando le economie e le politiche difensive dell’intera Asia e divenendo luogo di dibattito acceso. Altrettanto facilmente si evince il quadro al momento ricco di incertezze e criticità per quanto riguarda il progetto del canale, specialmente a causa delle sue difficoltà di realizzazione come la spaccatura a metà di uno Stato, il pesante impatto ambientale e la necessità di far fronte a un’ingente spesa. Completando il sunto, sembrerebbe che gli unici a guadagnare realmente qualcosa dalla costruzione sarebbero i cinesi.

Tutti questi elementi portano a pensare che si tratti di un piano irrealizzabile, di un qualcosa che rimarrà per sempre un’idea e che non si completerà. Tuttavia, questo non deve condurre ad accantonare il progetto, perché resta al centro del dibattito politico thailandese e perché la Cina continua ad avere forti interessi in esso. In particolare, negli ultimi mesi la Cina ha smesso di insistere sulla questione in quanto forte di accordi bilaterali con il Pakistan che stanno consolidando un nuovo passaggio delle risorse che aggira Singapore e riduce il traffico navale cinese nello Stretto di Malacca. Le relazioni con il Pakistan si rafforzano al punto che c’è l’intesa tra i due paesi di creare una nuova base navale cinese a Gwadar.

Cionondimeno, il progetto potrebbe tornare facilmente nell’agenda di Pechino; in particolare, dopo una possibile escalation sul Mar Cinese meridionale o su Taiwan, annesse le probabili reazioni da parte di Stati Uniti e alleati in forma di sanzioni contro la Cina e di minaccia di blocco dello Stretto di Malacca, Pechino potrebbe necessitare del canale come mezzo esclusivo di commercio e mercato sicuro. Andare oltre alla minaccia sarebbe rischioso per tutte le parti, in quanto danneggerebbe anche gli alleati degli Stati Uniti dell’area come Corea del Sud e Giappone, causando potenzialmente un blocco generale dell’intero commercio dell’area indo-pacifica, con conseguenze imponenti su scala globale. Pertanto, resta fondamentale monitorare e osservare l’evoluzione della situazione per poterne capire la portata, comprendendo le reazioni e le conseguenze nelle relazioni internazionali.

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