di Fabio Naca

“La situazione in Afghanistan sta rievocando sensazioni sinistre simili agli anni prima dell’11 settembre”. È così che Colin Clarke – direttore del Gruppo Soufan, un’agenzia di sicurezza e intelligence con sede a New York – sentenzia sul The Diplomat in un articolo del 29 aprile scorso. I motivi che hanno spinto l’autore a prendere una posizione così netta sono presto svelati nel prosieguo della pubblicazione: gli effetti della rotta americana da Kabul nell’agosto 2021, la risalita al potere dei Talebani, l’assenza di legami diplomatici con il nuovo governo afghano. Tuttavia, a farla da padrone in questa narrativa è la crescita pressoché incontrastata dell’ISKP, acronimo per Islamic State of the Khorasan Province – la sezione afghana dello Stato islamico. Quali sono i rischi dettati dall’ISKP? Esiste davvero la possibilità che il gruppo metta a segno un attentato simile all’attacco che devastò il cuore dell’America e del mondo intero oramai 22 anni fa?

Inquadramento dell’ISKP

L’arrivo sulle scene dell’ISKP risale al periodo 2014-2015, quando alcuni membri dei Tehrik-e-Taliban (ossia la fazione pakistana dei talebani), insieme a disertori di al-Qaeda e dei talebani afghani, decisero di dichiarare la propria fedeltà al Califfato siriano-iracheno, che proprio in quegli anni andava espandendosi nel Medio Oriente. Il primo attacco attribuito all’ISKP risale al giugno 2014, quando dodici talebani vennero uccisi nel Nuristan da quelli che si sarebbe scoperto solo in un secondo momento essere seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi. La struttura gerarchica dell’ISKP era nata secondo il modello dell’emirato, con il primo responsabile inquadrato in Hafiz Khan Saeed, già leader dei talebani nelle regioni settentrionali pakistane. Dopo aver subito numerose uccisioni e arresti – si contano sei leader dell’ISKP e almeno 550 rappresentanti di medio livello morti o catturati tra il 2015 e il 2021 – l’ISKP si è pienamente convertito in una formazione militare specialmente per quanto riguarda la direzione del gruppo, che dal 2021 è diretto da Shabab al-Muhajir.

Fonte: Afghanistan Study Group Final Report 2021 | Suddivisioni territoriali dell’Afghanistan. Attualmente, l’ISKP spazia in tutte le province del Paese, ma la sua attività principale è registrata nelle regioni orientali del Kunar e del Nangarhar, a ridosso del Pakistan. Alta è anche l’attività nel Jowzjan e nelle regioni a contatto con Turkmenistan e Tagikistan, nonostante le passate epurazioni in queste zone per mano talebana.

Parlando dell’ISKP, una delle prime domande in cui è facile imbattersi riguarda i rapporti che questo intrattiene nei confronti del governo talebano, poiché entrambe le formazioni si ergono a portatrici del fondamentalismo islamico attraverso l’impiego della violenza. L’ISKP nasce come gruppo di ispirazione salafita, ossia il ramo fondamentalista dell’Islam che si propone di avanzare l’insegnamento dei “veri musulmani”, seguendo alla lettera le interpretazioni del Corano e rifacendosi a una presunta purità spirituale come indicata da Maometto. Da questo atteggiamento deriva quindi la predisposizione repulsiva del gruppo all’intraprendere la strada del compromesso, peccato di cui si è macchiato invece la direzione talebana con l’accordo di Doha del febbraio 2020, raggiunto con gli Stati Uniti per delineare il futuro del paese asiatico. Inoltre, i rapporti dei talebani con lo Stato pakistano sono altresì al centro delle accuse dell’ISKP, poiché gli attuali leader del governo di Kabul non hanno mai nascosto le relazioni di vantaggio intrattenute con i servizi di intelligence di Islamabad.

Il modus operandi dell’ISKP

Come accennato nel paragrafo precedente, l’ISKP si è scagliato con forza contro i talebani, rei di aver intrapreso una strada “troppo liberale” e, ad ogni modo, comunque non in grado di riprodurre con fedeltà la realtà islamica. A tal proposito, è solo relativamente sorprendente scoprire che, nel corso di questi anni, i fedeli dello Stato islamico afghano abbiano allacciato legami con pochi e piccoli gruppi terroristici come Lashkar-e-Jhangvi al-Alami oppure Lashkar-e-Islam, per quanto queste relazioni fossero puramente dettate da ragioni strategiche.

Fonte: CSIS | Nell’illustrazione, numero di attacchi registrati da parte dell’ISKP tra gennaio 2017 e luglio 2021, con differenziazione per le vittime coinvolte. Come si può notare, il picco di attività del gruppo si è registrato nel 2018, con una conseguente diminuzione fino all’agosto 2021.

L’acme operativo dell’ISKP risale al 2018, con decine di attacchi diretti a diversi obiettivi – civili e militari – per mezzo, soprattutto, di detonazioni da remoto e attacchi suicidi. A condurre gli attacchi sono perlopiù uomini precedentemente esperti combattenti delle fazioni dalle quali hanno disertato. Tuttavia, altrettanto importante è il potere attrattivo-propagandistico generato dall’ISKP, dal quale deriva una forte leva morale in grado di attirare al salafismo una nutrita quantità di giovani, anche e soprattutto dai centri urbani.

Per quanto concerne l’aspetto finanziario, l’ISKP non è in grado di contare su una rete estesa come quella di al-Qaeda. A farla da padrone in questo contesto sono infatti la raccolta coercitiva di “donazioni” tra i locali, la rete intessuta dallo Stato islamico in altre parti del mondo, e – soprattutto – l’immortale ricorso all’hawala, ossia il sistema di finanziamento informale e indiretto sul quale fanno da sempre affidamento tutti le formazioni terroristiche di sedicente estrazione islamico-fondamentalista. Inoltre, nella coordinazione degli attacchi – tanto all’estero (come l’attentato ai mercatini di Natale di Berlino del 19 dicembre 2016) quanto in Afghanistan – è frequente il ricorso al cosiddetto virtual planner, ossia un metodo di esternalizzazione logistica per la pianificazione di un attacco facente affidamento su una rete globale di supporters indiretti dello Stato islamico.

Controterrorismo internazionale: Cina e Stati Uniti contro l’ISKP

Nella prima sezione ho fatto riferimento al ruolo giocato dagli accordi Doha del febbraio 2020 nell’ulteriore radicalizzazione dell’ISKP contro i talebani. L’importanza di questa intesa è anche rintracciabile nelle contemporanee capacità di portare a termine operazioni di controterrorismo in Afghanistan. A tal proposito, Colin Clarke fa notare come la politica di contrasto all’ISKP da parte di Washington sia sostanzialmente risultata carente sin dalla rotta di due anni fa, come anche sostenuto dall’ambasciatore americano a Kabul, Nathan Sales, il quale ha affermato che “La nostra abilità di monitorare le minacce terroristiche ha subito una forte contrazione a seguito della nostra dipartita”.

Se da una parte Washington sembra essersi saldamente avviata su una linea di disengagement sostanziale in Afghanistan, dall’altra parte è possibile invece captare il forte e crescente interesse di Pechino nella regione. Innanzitutto, è necessario ricordare come anche la Cina stessa sia stata direttamente bersagliata dall’ISKP, come confermato dall’attacco terroristico del dicembre 2022 all’Hotel Longan di Kabul, in seguito al quale alcuni cittadini cinesi rimasero feriti. Sin dall’invasione americana post-11 settembre, Pechino[1] ha giocato un ruolo di primo piano nelle relazioni diplomatiche internazionali tra Kabul e il resto del mondo. A partire dal 2012, le relazioni sino-afghane sono andate migliorando tanto sul piano economico-commerciale, quanto nel settore della cooperazione di sicurezza.

A partire dalla rotta di Kabul americana, la Cina ha incrementato la propria presenza diplomatica e non in Afghanistan e negli immediati dintorni. Proprio in virtù di questi interessi, il gigante asiatico ha iniziato a investire sensibilmente anche in un dispiegamento militare nella regione. In questo senso, centrale è la base di Pechino sita nella provincia del Gorno-Badakhsan, collocata su territorio tagiko a circa 12 km di distanza dal confine afghano, fondamentale non solo nel controllo della nuova via della seta. Inoltre, questo centro militare è da considerarsi in funzione della gestione del corridoio del Wakhan, ossia la stretta lingua di terra che collega l’Afghanistan alla Cina, crocevia fondamentale delle future dinamiche economico-politiche della regione.

Fonte: Stephen Blank | La collocazione geografica della base militare cinese nel Gorno-Badakhsan, a ridosso dello strategico corridoio del Wakhan nell’Afghanistan nord-orientale.

Quale futuro per l’ISKP?

Il comandante del Comando Centrale dell’esercito americano, Generale Michael Kurilla, ha affermato che l’ISKP sarebbe in grado di condurre operazioni al di fuori dell’Afghanistan nel giro di sei mesi senza destare particolari sospetti. La sensazione è che, purtroppo, Colin Clarke abbia ragione nel sostenere che il disinteresse occidentale nella crescita dell’ISKP sia quantomeno rischioso nel medio-lungo termine. Tuttavia, se l’attenzione degli ultimi vent’anni sull’Afghanistan era davvero incentrata sul Paese asiatico, bisogna riconoscere come lo Stato islamico abbia già preso piede e stabilito una roccaforte a livello regionale, motivo per il quale sarebbe lecito aspettarsi un maggiore coinvolgimento internazionale nel tentativo di fermare sul nascere le aspirazioni dell’ISKP.

[1] ~ Khan, H.U., Dawar, A.I., & Khan M.M. (2023). Quest for Peace in Afghanistan: Analysis of China’s Regional Policy after US Withdrawal. FWU Journal of Social Sciences, 17(1), 27-42.

Foto in copertina: European Eye on Radicalization.

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