Il Presidente Macron si è recato in Mongolia lo scorso maggio a margine del summit del G7 tenutosi a Hiroshima, segnando la prima storica visita di un Capo di Stato francese nel Paese. Macron è volato ad Ulaanbaatar il 21 maggio ed è stato accolto con il massimo degli onori a Piazza Sükhbaatar dal Presidente della Mongolia Khürelsükh. Tra i temi rilevanti in agenda annoveriamo una maggiore cooperazione in campo minerario su uranio e (potenzialmente) terre rare e l’inaugurazione di una mostra dedicata a Chinggis Khan a Nantes il prossimo ottobre – quella stessa mostra che scatenò le ire cinesi qualche anno addietro.
De-risking: da che cosa?
Il tempismo è tutto nelle relazioni internazionali. La visita di Macron è di cruciale rilevanza se inserita nel paesaggio geopolitico dell’Indo-Pacifico, lì dove il contenimento (leggi: strangolamento) della Cina per mano statunitense è sempre più marcato. Da quando gli apparati americani hanno individuato nella Cina il proprio rivale principale (o meglio, il proprio nemico) gli Stati Uniti hanno diminuito costantemente la loro dipendenza, chiedendo agli alleati di ricomprare il debito americano posseduto da Pechino e riducendo gradualmente la dipendenza dalle terre rare cinesi. È su questa scia che si è diffuso il verbo del de-coupling dalla Cina e ad Hiroshima si è rincarata la dose parlando di de-risking, enfatizzando una prevenzione rispetto al verificarsi di eventi imprevisti. “We are taking concrete steps to coordinate our approach to economic resilience and economic security that is based on diversifying and deepening partnerships and de-risking, not de-coupling”, così recita il testo del comunicato finale congiunto del G7. Un termine eloquente, tanto che la domanda pare ovvia: riduzione di quale rischio? In vista di cosa?
Di una guerra con la Cina.
Non è questa la sede per addentrarci nei fattori che spingerebbero Stati Uniti e Cina ad un conflitto militare, ma pensare a tale scenario non risulterebbe assurdo anche solo per via delle numerose incursioni aeronavali di Pechino nelle acque e nei cieli rivendicati da Formosa e dei numerosi “incidenti” (leggi: pretesti) che nella storia hanno legittimato gli americani ad utilizzare l’uso della forza. Sulla scorta della turbolenza energetica a cui abbiamo assistito in Europa dopo la guerra d’Ucraina, il de-risking appare quasi inevitabile dato che l’interscambio commerciale europeo (e americano) con Pechino assesterebbe un colpo ben più duro di quello subito a seguito delle sanzioni contro Mosca. Nell’implementazione del de-risking c’è quindi una costante riduzione della dipendenza economica, tecnologica ed energetica rispetto al verificarsi di eventi imprevisti.
Terre rare
Infatti, nella partita delle terre rare la riduzione della dipendenza dalla Cina è accompagnata dal crescente accaparramento di queste risorse da paesi strategicamente affini a Washington. In questo senso, non bisogna soffermarsi all’estrazione e all’elaborazione di terre rare ad oggi, bensì alle riserve che inciderebbero nella competizione tra le grandi potenze nel medio-lungo periodo. Secondo dei dati del 2020, è vero che la Cina possiede 37,9% delle riserve mondiali, ma soltanto contando le riserve dei paesi schierati con gli Stati Uniti – ovvero Vietnam, Brasile, India, Australia e Canada –, o Paesi che non hanno scelta, Washington lambisce il 50% delle riserve globali.
Ed è qui che entra in gioco la visita di Macron ad Ulaanbaatar. Secondo uno studio del 2009, in Mongolia sono stimate riserve per 31 milioni di tonnellate di terre rare, una stima che metterebbe i mongoli al secondo posto solo dopo i cinesi con il 15-20% delle riserve mondiali, attraendo gli interessi occidentali in funzione anticinese. A margine della Dichiarazione Congiunta tra Francia e Mongolia siglata in questa occasione, Macron ha mostrato interesse sulla questione affermando in maniera tutt’altro che velata che la Francia vuole aumentare la sua autonomia energetica attraverso la fornitura di “metalli critici” dalla Mongolia, che di queste risorse è ricca. Infatti, sono già quattro i siti estrattivi di terre rare operativi nel Paese, tre gestiti da compagnie mongole e uno gestito assieme ad una compagnia canadese. L’iniziativa di Macron lascia intendere come i rapporti tra Mongolia e l’Occidente (leggi: Stati Uniti) possono solo che crescere alla luce del sistema che ruota non solo attorno alle terre rare, ma al sistema minerario nel complesso. Le statistiche diventano ancora più invitanti se si pensa che appena il 4,9% del territorio mongolo è in concessione a licenze esplorative (3.9%) ed estrattive (1.0%). Ne deriva, quindi, che il potenziale del sottosuolo mongolo in termini di risorse potrà svolgere un ruolo sempre più importante nella competizione tra Stati Uniti e Cina.
Uranio
Nel breve periodo, invece, la Mongolia e la Francia intensificheranno la cooperazione per l’estrazione di uranio dalla miniera di Zuuvuch-Ovoo, la più grande del Paese, attraverso una jointventure per il 66% francese (Orango) e per il 34% mongola (Mon-Atom). Si dà il caso che la Mongolia abbia ripreso la produzione di uranio, sebbene sia ancora molto bassa al momento, a seguito di diversi studi geologici che collocano il Paese al terzo posto in Asia (197 mila tonnellate cubiche, dietro a solo Kazakhstan, Russia e Cina).
A questo si aggiungono altri preziosi investimenti che la Francia si è promessa di sostenere in materia di energia rinnovabile assieme ad una cooperazione nella transizione energetica e nella diversificazione dell’approvvigionamento energetico.
Da una parte, la Francia è già da un paio di anni che è tornata sulle orme dell’uranio asiatico, riallacciando (temporaneamente?) le importazioni di uranio arricchito dalla Russia e importando quasi la metà dell’uranio naturale da Kazakhstan e Uzbekistan – che, fino all’inaugurazione corridoio commerciale trans-caspico, avverrà attraverso i porti di San Pietroburgo. La scelta dell’uranio mongolo, allora, è sicuramente per la Francia una diversificazione il proprio approvvigionamento, ma data la locazione geografica della Mongolia sembra più un modo per disturbare, o attenuare, l’accaparramento spasmodico di risorse dei due giganti confinanti, Russia e Cina. Infatti, è vero gli Stati Uniti concedono alla Francia maggiore margine di manovra rispetto agli altri “alleati” europei, ma è anche vero investimenti occidentali in Mongolia servono a bilanciare la vulnerabilità economico-energetica del Paese verso Russia e Cina e che, soprattutto, essendo la Mongolia un territorio ricchissimo di risorse, ogni presenza occidentale sul territorio è una potenziale risorsa sottratta a Pechino.
La politica del “terzo vicino”
D’altra parte, la diversificazione dell’approvvigionamento energetico è fondamentale anche per l’autonomia strategica della Mongolia. Il Paese risulta avere tre punti cruciali di vulnerabilità: il suo export è assorbito per il 73% dal mercato cinese, una dipendenza quasi totale sull’esportazione di carbone (89%) e totale per rame e ferro; importa l’86% del petrolio dalla Russia; e importa il 78,4% di elettricità dalla Cina e dal 21.6% dalla Russia. Due considerazioni sono doverose a questo punto. Primo: alla luce dei grandi depositi di uranio, questi fattori di vulnerabilità potrebbero spingere la Mongolia a prendere in considerazione il nucleare civile per diluire la dipendenza energetica Russia e Cina. Sarebbe un risultato complesso da raggiungere soprattutto per la carenza di infrastrutture che affligge il Paese, ma non impossibile già nel medio periodo.
Secondo: nell’Asia nordorientale, almeno per il momento, gli interessi americani, francesi e mongoli coincidono. La pressione americana (e, quindi, francese) nei confronti della Cina è molto forte via mare, seguendo la naturale propensione americana di dominare la fascia costiera dell’Eurasia per mantenere il dominio sull’Heartland, ovvero la massa eurasiatica costituita prima dall’Unione Sovietica e dalla Cina, ora da Russia e Cina, che rappresenta l’incubo per antonomasia delle potenze talassocratiche, prima dal Regno Unito e poi dagli Stati Uniti. La Mongolia, quindi, per via della sua svolta democratica post-sovietica e per la sua abbondanza di risorse, rappresenta una ghiotta opportunità per indebolire la Cina chiudendo il suo accerchiamento anche da terra. Un’opportunità che fa leva su un Paese che è impegnato nell’affermazione di sé e che cerca, per quanto possibile, di utilizzare legarsi ad altri attori (regionali e non) per sganciarsi dalla dipendenza di Russia e Cina. La Mongolia, infatti, è un Paese che fa leva sulla democraticità per distinguersi come unicum asiatico (sebbene la maggioranza in parlamento, il presidente del parlamento, il primo ministro e il presidente siano tutti in mano al Partito Popolare Mongolo) e sull’abbondante richiesta di investimenti stranieri, soprattutto in campo minerario.
Traumi, angosce e ossessioni
In poche parole, è questa la strategia professata della Mongolia nella sua costituzione attraverso le National Security Strategy del 1994 e del 2010. Il bilanciamento dei rapporti con Russia e Cina attraverso una politica di buon vicinato è la base di partenza per un’estroversione strategica che vede la costante ricerca di un terzo vicino – Stati Uniti, Giappone, Unione Europea (leggi: Francia e Germania), India, Corea del sud e Turchia – con lo scopo di rendere il Paese “land-linked” invece che “land-locked”. Ad una disamina storica però, appare chiaro come la minacciosità cinese sia molto più ingombrante rispetto a quella russa. I mongoli, dopo la disgregazione dell’Impero, hanno subito per centinaia di anni la soggiogazione di Pechino tra saccheggi, stupri e torture. L’URSS, invece, non certamente per buon’animo ma per motivi strategici, ha sempre aiutato la Mongolia, dalla sua indipendenza alla sua integrità, proprio per far pressione su Pechino. La lunga e indivisibile storia che lega Ulaanbaatar a Pechino fa, quindi, della questione cinese il trauma dell’identità nazionale mongola, che si fonda in quanto anticinese ed è, in questo senso, profondamente razzista. Il trauma genera angoscia, che si materializza a livello strategico nella politica di buon vicinato, e ossessioni, come la ricerca di aiuto dei tanti terzi vicini e il miglioramento dei rapporti con loro per non scomparire, di nuovo, dalla carta geografica.
Proprio come risposta ai propri traumi, alle proprie angosce e alle proprie ossessioni, la Mongolia ha imperniato la sua esperienza democratica sulla restaurazione del mito di Gengis Khan. Nel 2006, in occasione dell’ottocentesimo anniversario dell’incoronazione di Gengis Khan, è stata inaugurata una gigantesca statua che, assieme ai suoi comandanti più forti e ai suoi nipoti, presiede il Gran Khural ovvero il parlamento mongolo. Proprio con la Francia, nel 2020, la Mongolia voleva inaugurare a Nantes una mostra in onore del condottiero mongolo, ma l’iniziativa è stata fermata dopo che l’Agenzia per il patrimonio culturale nazionale cinese ha fatto pressioni affinché si cambiasse il piano originale che “includeva particolari elementi di revisionismo fazioso della cultura mongola in favore di una nuova narrativa nazionale”.
Tre anni dopo, quella stessa mostra si terrà con il nome di “Genghis Khaan: How Mongolians changed the world”, un nome ben più pungente di quello proposto tre anni fa – “Genghis, Rise of the Mongol Khans”. E visto che nelle relazioni internazionali il tempismo è tutto, questo progetto, promosso assieme al dossier sull’uranio e sulle terre rare in un momento così delicato della partita nell’Indopacifico, ha tutte le carte in regola per essere una sfida, oltre che uno smacco, della Francia (leggi: Stati Uniti) nei confronti della Cina. Mors tua vita mea.
Foto in copertina: Il Presidente francese Macron e il Presidente mongolo Khürelsükh scendono le scale del Museo Nazionale della Mongolia dedicato a Gingghis Khan. Ai lati le guardie reali deputate alla difesa di Ginggis Khan ai tempi dell’Impero mongolo, chiamate Kheshig.
Fonte: Montsame.