di Chiara Bertorotta
Terzo Paese più esteso del continente africano, il Sudan è ormai in guerra da un anno e si trova attualmente al centro di una catastrofe umanitaria, essendo allo stesso tempo teatro della più vasta crisi di sfollati e della più severa crisi alimentare al mondo: oltre 8 milioni di sudanesi sono stati costretti ad abbandonare la propria casa, mentre più di un terzo della popolazione lotta contro la fame. Nonostante la drammatica urgenza, questo disastro umanitario riceve scarsa attenzione dai media né è sufficientemente considerato dall’azione della Comunità Internazionale, con l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari che riferisce che solo il 10% degli aiuti necessari per affrontare la situazione è stato messo in campo. L’inosservanza generale contribuisce però ad accelerare la trasformazione del Sudan in uno Stato fallito, uno scenario che rischia di avere ripercussioni disastrose sull’intera regione, in un contesto già complicato dalla presenza di numerosi attori regionali ed internazionali.
Le origini del conflitto
Dall’indipendenza ottenuta nel 1956, passando per due tragiche guerre civili, una dittatura della durata di trent’anni e un genocidio riconosciuto dalla Corte Penale Internazionale, il Paese non ha mai veramente raggiunto la stabilità, lasciando la popolazione in uno stato di perenne sofferenza. Una luce di speranza verso quella stabilità a lungo cercata sembrò accendersi nell’aprile 2019, con il colpo di stato che portò alla destituzione del dittatore al-Bashir. L’evento inaugurò infatti un processo di transizione democratica che prometteva una nuova direzione per il futuro del Sudan. Dopo mesi di intense proteste, la presidenza passò dapprima ad un Consiglio Militare di Transizione (Transitional Military Council), e, nell’agosto successivo, ad un Consiglio Sovrano Transitorio (Transitional Sovereignty Council), istituito nel quadro dell’intesa che portò anche all’adozione di una dichiarazione costituzionale e che prevedeva la condivisione del potere tra civili e militari. Nel 2021 questa fase ha subito però una battuta di arresto a causa di un nuovo golpe che ha riportato i militari al potere. In particolare, ruoli di primo piano sono stati assunti da due generali che erano già saliti alla ribalta in passato, Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, più semplicemente noto come Hemedti. Il primo, capo di Stato de facto del Paese, è il leader delle SAF, le forze armate sudanesi. Il secondo è invece a capo delle RSF, le Forze di Supporto Rapido, una forza paramilitare autrice di violenze durante la rivoluzione del 2019 ed erede della milizia Janjaweed, che si era a sua volta resa colpevole di massacri, rapimenti e stupri nella regione del Darfur durante la guerra degli anni 2000. Dopo poco tempo, le due personalità hanno conosciuto le prime divisioni, acuitesi in relazione alla scelta di al-Burhan di integrare le milizie guidate da Hemedti nell’esercito sudanese, senza che vi fosse un accordo su chi vi avrebbe poi esercitato il controllo effettivo. Col passare dei mesi i contrasti si sono trasformati in una lotta di potere che il 15 aprile 2023 è degenerata in un vero e proprio conflitto armato. In un anno gli scontri si sono sempre più intensificati, specialmente attorno alla capitale Karthoum e nelle regioni del Kordofan e del Darfur, evolvendosi in una guerra civile che vede coinvolti numerosi miliziani e ribelli e che ha fatto precipitare il Paese nella profonda e devastante crisi in cui si trova oggi.
Oltre i confini: dalla guerra civile alla proxy war
Il quadro si fa ancora più complicato se si guarda alla posta in gioco – la posizione strategica del Paese, attraversato dal Nilo e affacciato sul Mar Rosso, le sue vaste ricchezze minerarie e il suo potenziale agricolo – e a come il conflitto abbia sviluppato un’ulteriore dimensione, divenendo di fatto una guerra per procura che vede il coinvolgimento di una molteplicità di attori.
Anzitutto, l’allineamento formatosi attorno alle due fazioni in lotta permette di osservare la crescente rivalità tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. A prima vista, questa contrapposizione potrebbe sembrare innaturale, visti i numerosi punti di consonanza tra i due Stati: entrambi sono monarchie assolute ricche di petrolio, alleate degli Stati Uniti, con un interesse nel mantenere la stabilità regionale per tutelare la propria sicurezza e decise a contenere l’influenza di Iran e Qatar. Nonostante ciò, esiste tra loro una marcata competizione per determinare chi delle due emergerà come la principale potenza politico-economica del Golfo, per acquisire maggiore potere all’interno dell’OPEC e del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il loro posizionamento rispetto alla guerra in Sudan si configura quindi come un’opportunità per espandere la loro presenza nel mondo Arabo ed accrescere il proprio ruolo nella politica regionale. Più precisamente, mentre Riyadh supporta al-Burhan, Abu Dhabi è particolarmente vicina ad Hemedti, in virtù del contributo che le RSF hanno fornito sia alle truppe emiratine nel sud dello Yemen sia al Generale libico Khalifa Haftar, anch’egli sostenuto dagli EAU.
Oltre all’appoggio emiratino, Hemedti può contare anche su quello della Russia. Le ricchezze aurifere sudanesi, infatti, avevano da tempo suscitato l’interesse di Mosca, decisa ad aggirare una parte delle sanzioni occidentali applicate nei suoi confronti già nel 2014, a seguito dell’invasione della Crimea. Ancora sotto la dittatura di al-Bashir vennero quindi conclusi una serie di accordi che prevedevano, tra le altre cose, l’installazione di una base navale russa a Port Sudan, località situata sul mar Rosso, e concessioni per l’estrazione dell’oro presente nel Paese ad una società russa che si ritiene abbia fatto da prestanome alle attività della Wagner in Sudan. Gli sviluppi successivi hanno poi favorito l’avanzamento di questi rapporti verso una stretta e costante collaborazione: da una parte la Russia continua a sfruttare le miniere d’oro per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina, dall’altra le RSF ricevono in cambio armi e aiuto da parte della Wagner per combattere contro le SAF.
In aggiunta, un ruolo chiave è assunto anche dall’Egitto, che, confinante a sud con il Sudan, scorge in questo conflitto rischi significativi per la propria sicurezza. Il Cairo, dove il potere è detenuto da un militare, è un convinto sostenitore dell’esercito come istituzione in grado di mantenere la stabilità, e si è per questo schierato dalla parte di al-Burhan, trovandosi così sul fronte opposto rispetto ad Abu Dhabi, che però gli offre ingenti aiuti economici.
La necessità della diplomazia per evitare una crisi regionale
A questo punto si comprende come il coinvolgimento di attori esterni nel conflitto ne abbia alimentato il fervore ed esacerbato la complessità, un fattore potenzialmente molto pericoloso, nella misura in cui la guerra sudanese potrebbe condurre ad una vasta crisi su scala regionale. Il Sudan è infatti collocato in un’area particolarmente instabile, tra Mar Rosso, Sahel e Corno d’Africa, e confina con Paesi che sono anch’essi stati attraversati da sconvolgimenti politici e conflitti, come il Ciad, il Sud Sudan e l’Etiopia, i quali potrebbero subire ulteriori pressioni qualora si trovassero ad affrontare l’arrivo di nuova popolazione sfollata. Per queste ragioni, gli Stati Uniti hanno evidenziato la necessità di avviare una seria mediazione per porre fine al conflitto e ripristinare il processo di transizione costituzionale. A questo proposito hanno quindi accolto con favore l’idea di riaprire i colloqui di pace, che dovrebbero tenersi a breve a Jeddah, nel tentativo di mettere Egitto, Arabia Saudita e EAU d’accordo sul trattare con i belligeranti e raggiungere un’intesa il prima possibile. Il fattore tempo è infatti decisivo per evitare che la situazione sul campo diventi un eccessivo ostacolo al raggiungimento di una soluzione condivisa, e per evitare che la popolazione sudanese continui a patire una violenza inaudita.
Chiaramente, il raggiungimento di una pace duratura non è un obiettivo perseguibile nel breve termine, in quanto questa dovrebbe coinvolgere un’ampia varietà di attori civili e militari presenti in Sudan. Tuttavia, è importante che si arrivi alla cessazione dei combattimenti affinchè questo processo possa essere avviato, poiché il protrarsi della guerra lo renderebbe inevitabilmente più insidioso. La situazione richiede perciò un intervento immediato da parte di Washington e degli attori regionali coinvolti, per prevenire la trasformazione del Sudan in uno stato fallito, una condizione che potrebbe richiedere anni per essere risolta.