di Luca Raimondi Cominesi
“Ovunque vi siano due ebrei, vi sono tre opinioni”.
Il 7 giugno 2015, Reuven Rivlin, ex capo di stato israeliano, si espresse in maniera decisamente drastica sulla situazione in cui versava la società israeliana. L’ex esponente dell’ala liberale del Likud impiegò il termine “tribù”, espressione dal sentore biblico, per indicare le diverse fazioni e i differenti raggruppamenti etnico-culturali che caratterizzavano lo scheletro della società israeliana. Nel suo discorso, Rivlin individuava quattro principali gruppi: gli ebrei laici o secolari; i nazionalisti religiosi; gli ebrei ultraortodossi, i cosiddetti Haredim, letteralmente “i timorati”; e gli arabi suddivisi ulteriormente in drusi, palestinesi ed arabi israeliani. Due ebrei e tre opinioni, o meglio “tribù”, proprio come nel vecchio proverbio yiddish. Le tribù possono essere considerate al pari di veri e propri clan d’appartenenza. Ogni “clan” ha il proprio idioma linguistico, ha la propria struttura scolastica, le proprie zone geografiche di residenza, i suoi giornali e i suoi canali televisivi. Tra esse muta persino la concezione di come il potere statale dovrebbe impattare sulla vita dei cittadini. Basti vedere come varia la partecipazione alla leva obbligatoria: la maggior parte dell’esercito israeliano è composto da giovani (e da riservisti) laici e nazionalisti religiosi; agli Haredim è invece concessa l’esenzione sin dal 1948, mentre ne sono quasi completamente esclusi gli arabi, con la sola eccezione di qualche minoranza drusa.
Le divisioni si notano sul piano religioso, economico, etnico-geografico e politico. Ogni tribù concepisce le altre come diverse, completamente staccate e separate dalla propria, ed è qui che la politica è stata in grado di inserirsi fomentandone il frazionamento e cavalcandone le rivalità. La separazione delle quattro anime del mosaico sociale di Israele pare irreparabile. Rivlin, più di sette anni fa, capì la problematicità e l’importanza di tale situazione: la coesione sociale e la tenuta del paese sono strettamente legate all’impronta demografica di ogni tribù. In termini matematici, il peso di ogni gruppo sociale può infatti influenzare gli esiti politici (e le conseguenti ripercussioni sia interne che estere). Gli ultimi esiti elettorali e la successiva composizione governativa ne sono la dimostrazione: Netanyahu è stato in grado di fondere in un’unica coalizione le differenti gradazioni della destra israeliana, dai liberali agli ultraortodossi, facendo leva sulle divisioni tra i gruppi sociali e aprendo le porte ai nazionalisti religiosi e agli Haredim.
I nipoti “tribali” del Sionismo
La frattura della società israeliana inquadrata dall’ex capo di stato non è però figlia del nostro tempo. Ha infatti origine nelle diverse visioni del sionismo. Gli ebrei non erano nazione ancor prima che Israele ottenesse l’indipendenza. L’attuale situazione origina dall’ormai centenaria contrapposizione tra laici e religiosi: da una parte coloro che hanno ereditato la cultura del sionismo Herzeliano e che sono fortemente devoti alla laicità statale di Medinat Yisrael; dall’altra i sostenitori dell’Eretz Yisrael, Grande Israele, cioè coloro che, legati alla vecchia concezione del sionismo territorialista, vorrebbero uno Stato Ebraico (religioso e dunque non Israeliano). Ma vi sono anche coloro che preferiscono – da sempre – autodefinirsi “Antisionisti”. Quest’ultimi appartengono per lo più alla tribù degli Haredim ultraortodossi ed incarnano il messianismo ebraico (di ispirazione biblica). Essi credono, infatti, che solamente tramite un Messia si potrà formare il vero e autentico stato (o forse regno) – di Dio – per il popolo eletto. Questi antichi contrasti di veduta hanno caratterizzato, lungo il corso della sua breve storia, tutte le vicende politiche di Israele. Hanno inciso particolarmente sui rapporti con il mondo arabo e palestinese, sulla stesura delle quattordici Leggi Fondamentali e sull’assegnazione dei poteri alle tre principali istituzioni nazionali. Inoltre, più recentemente, hanno impattato sulla riforma della Corte Suprema (presentata e fortemente voluta dal governo Netanyahu) che ha scatenato proteste in tutte le principali piazze del paese.
Ashkenazim e Sefardim, élite e popolo
Ma in realtà il piano di conflitto è osservabile anche da un’altra prospettiva, decisamente più politica e meno marcata: quello del confronto tra un’élite principalmente Aschenazita e il popolo Sefardita. Il confronto politico in Israele ha, di fatto, seguito l’onda populista che ha coinvolto il resto dei paesi democratici. Alcuni esponenti dell’attuale governo in carica hanno incentrato slogan e discorsi elettorali proprio sul tema dell’anti-elitismo: “Loro [la sinistra Aschenazita] hanno i media e hanno i magnati che finanzieranno le proteste, ma noi abbiamo la nazione”. In tale contesto, le numerose differenze hanno infuocato il dibattito sulla riforma della Corte Suprema. Le fazioni pro-esecutivo, per lo più religiose e sefardite, vorrebbero ribaltare quello che viene considerato il dominio dell’élite secolare aschenazita; i contestatori, classificati come anarchici e sovversivi dalla maggioranza governativa, compongono invece un mosaico quasi esclusivamente aschenazita, seppur eterogeneo e trasversale tra le tribù (sfilano in piazza sia laici che nazionalisti, ma anche qualche minoranza drusa ed araba).
Israele: stato senza costituzione
Israele non possiede una costituzione: la prima Assemblea costituente eletta alla Knesset nel 1947, non ha potuto operare per assegnare una carta costituzionale al popolo ebraico, appena dichiarato indipendente, data l’imminenza e la rapidità con cui Israele ha dovuto affrontare il conflitto contro la Lega Araba, durato fino all’anno successivo. Nel corso dei seguenti settant’anni, il legislativo ha sempre scelto di muoversi al fine di assegnare delle Leggi Fondamentali (al momento quattordici) che formassero solamente lo scheletro di una costituzione, senza mai arrivare ad una vera e propria svolta. Il parlamento ha sempre preferito seguire la strada delle consuetudini legislative, basate su accordi tra maggioranza ed opposizione parlamentari per rispecchiare il più ampio consenso nazionale possibile. Il governo Netanyahu, però, ha deciso di interrompere tale tragitto, scegliendo di non confrontarsi con l’opposizione per portare quella che, anche secondo i principali alleati di Israele, può essere considerata una riforma dal carattere illiberale. Essa, infatti, muterebbe gli equilibri di potere interni assegnando un enorme vantaggio all’esecutivo e alle commissioni parlamentari e rischia di rendere la più alta istituzione del ramo giudiziario una costola del potere politico. Sono dunque comprensibili le proteste e le manifestazioni che hanno visto sfilare nelle piazze un numero elevatissimo di persone.
La protesta dei Refusenik
Ma qui sorge un problema: oltre ai civili, hanno deciso di manifestare anche i riservisti ed in particolare il nucleo principale dell’esercito israeliano, quello che ha garantito e continua a garantire la sopravvivenza dello stato, cioè l’aviazione. Israele è sorta dalla minaccia, prima europea e successivamente quella araba mediorientale. Ma le proteste e la renitenza dei riservisti (refusenik) rischiano di tuffare nuovamente nel pericolo Israele. Quella che è l’unica democrazia del Medioriente rischia di perdersi nei vicoli dell’illiberalità, non tanto quella di stampo vicino-orientale, quanto quella dei modelli ungherese e polacco. Sotto la scintilla della riforma della Corte suprema ne uscirebbero incendiate la struttura democratica, la coesione tribale e il rapporto con gli storici alleati a stelle e strisce, con il rischio che possa prender fuoco anche la “mai stabile” regione del vicino-oriente. C’è, infatti, il rischio che possa riaccendersi in maniera decisiva il confronto con i palestinesi, come si può notare dalla spirale di violenza intrapresa da entrambe le parti negli ultimi tre anni. Israele rischia di allontanarsi dai partner storici americani ed europei, viste le dichiarazioni di preoccupazione rivolte alla deriva autoritaria che porterebbe la riforma del giudiziario. Ma si è anche intrapresa una strada diversa per quanto riguarda le relazioni di Medinat Yisrael e gli stati arabi della regione (in particolare con la decisione di sospendere le trattative bilaterali dei patti di Abramo e l’inasprimento dei rapporti con la sempre più lontana Iran). Ciò che però preoccupa maggiormente gli osservatori internazionali è la situazione interna al paese: la crisi identitaria, le rivalità tribali, l’assenza di decisione sulla volontà di avere uno stato israeliano o uno stato ebraico e la conflittualità tra sostenitori e antagonisti della riforma, rischiano di infiammare la società israeliana, mostrandola sempre più debole agli occhi dei rivali esteri e sempre più polarizzata allo sguardo dei falchi interni.
Per concludere – Chi è israeliano?
Nel 2018 fu approvata, prima dalla Knesset e successivamente dalla Corte Suprema, la legge sullo “Stato-Nazione” che definiva Israele come la patria storica del popolo ebraico. Nel Marzo 2021 la stessa Corte Suprema ha ampliato il concetto di identità ebraica, consentendo anche ad autorità religiose non ortodosse di conferire lo status di “ebrei” all’interno dello stato ebraico. Le questioni irrisolte del sionismo, le fratture sociali interne al Paese e la mancanza di capacità decisionale della politica di definire l’ebraicità sono degli elementi fondamentali per capire la complessità congenita alla società israeliana. La politica pare indifferente al quesito che il “popolo eletto” si pone da più di settant’anni: esiste una nazione israeliana? Se, per necessità, la risposta a tale domanda è stata a lungo posticipata, l’attuale situazione di crisi interna dovrebbe farne comprendere l’essenzialità. La società israeliana non è stata in grado di maturare una coscienza nazionale, se non nei momenti di crisi estere. Al momento è costretta a riporsi il quesito per la sua stessa sopravvivenza – non più per minacce esterne, ma per l’assenza di coesione e di comprensione del sé. La riforma della Corte Suprema, attualmente sospesa, ha riaperto il dibattito interno, ma ha anche inasprito le posizioni – apparentemente irremovibili – e le differenze – in parte incolmabili – tra le tribù. Ciò che si domandano gli alleati è se Israele sarà capace di far fronte alla sua situazione interna, creando una nuova – e di certo limitata al breve periodo – unità d’intenti tra le diverse anime del paese, per contrastare le sfide estere sempre più stringenti dell’Iran e della Jihad Islamica.
Foto in copertina: Haaretz.com: Due Haredì osservano una manifestazione contro il governo Netanyahu 19/05/2023.