di Stefano Vailati

Sconfitto nella Seconda guerra mondiale, colpito da due bombe atomiche e sottoposto al dominio statunitense da allora, il Giappone si caratterizza per un atteggiamento il più possibile pacifista nei suoi rapporti con il resto del mondo. Complice anche la protezione che riceve da quegli stessi Usa cui offre basi militari e infrastrutture in cambio, il Paese del Sol levante si è potuto concentrare, negli ultimi ottant’anni, su una crescita economica impressionante. Possiamo subito notare, in questi pochi tratti, una serie di caratteristiche comuni agli altri due grandi sconfitti del secondo conflitto mondiale: Italia e Germania. Formidabile ripresa economica post-bellica sotto la protezione militare americana, occupazione attraverso un gran numero di basi militari e pacifismo scatenato dal trauma del proprio passato bellico. In Giappone tutto questo raggiunge un livello superiore. Ne è un esempio lampante l’autoimposto divieto, per costituzione, di mantenere un esercito permanente. Le forti pressioni derivanti dalla posizione dell’arcipelago giapponese all’interno della geografia della regione e del sistema di alleanze anti-cinese, come vedremo, stanno tuttavia avendo la meglio su questa reticenza. A dicembre 2022, per esempio, abbiamo assistito al varo di un piano di sviluppo di dieci nuovi tipi di missili, anche ipersonici, mentre pochi giorni fa, a inizio maggio 2023, Mitsubishi Heavy Industries ha annunciato un aumento previsto delle commesse della difesa giapponese pari alla metà di quelle attuali.

La prima catena di isole

Con la fine della Guerra fredda, e con la contemporanea ascesa della Cina fino a ruolo di aspirante grande potenza, Tokyo si trova però ad essere cardine della strategia statunitense nell’area, a cominciare dal suo ruolo di perno del settore Nord della prima catena di isole, la linea di alleati in cui si concretizza il containment anti-cinese. L’indiscutibile allineamento giapponese (e sudcoreano, altro perno del settore settentrionale) rende questa parte della linea difensiva la più stabile, ma non impedisce a Washington di permettere, e anzi sollecitare, un maggiore sforzo militare degli alleati. La stabilità politica di cui gode il Paese, e l’uso di formule giuridiche estremamente fantasiose, hanno poi permesso di aggirare quasi tutti i limiti costituzionali.

Fonte: US Defense Archive

Chi c’è fuori?

La fedeltà agli Stati Uniti è indiscutibile anche per le tre grandi rivalità storiche e geopolitiche che oppongono il Giappone a Cina, Russia e Corea del Nord, tutti antagonisti condivisi con l’alleato nordamericano. Per quanto riguarda Pechino, i rancori derivanti dall’invasione nipponica prima e durante la Seconda guerra mondiale non si sono mai sopiti, ed è ancora vivo nella memoria collettiva cinese il ricordo delle devastazioni e delle violenze perpetrate dall’invasore (si pensi al massacro di Nanchino). L’inversione delle magnitudini di potenza nei decenni successivi, unita all’arma atomica di cui la Cina dispone dal 1964, non può non destare timori a Tokyo. Legato a questa rivalità è anche il perenne timore di un attacco da parte della Corea del Nord. Vista infatti la scarsa difficoltà che Pyongyang incontra nel rendere credibile un’aggressione alla Corea del Sud (Seoul, dove risiede quasi la metà degli abitanti, è a 50 chilometri dal confine), questa sceglie di provocare gli Stati Uniti lanciando missili potenzialmente armati di testate nucleari nella loro direzione, e sorvolando quindi il Giappone, nei cui mari spesso cadono questi vettori. La terza potenziale minaccia proviene, come si diceva, dalla Russia. Ancora teoricamente in guerra (non è mai stata firmata una pace che ponesse fine alle ostilità dopo il secondo conflitto mondiale), i due Paesi si contendono le isole Curili, situate a Nord dell’arcipelago giapponese, mantenendosi quindi in uno stato di tensione e sospetto reciproco che, coinvolgendo il primo arsenale nucleare del mondo per numero di testate, difficilmente permette a Tokyo di dormire sonni tranquilli.

Fonte: DW news

A tutte queste minacce sistemiche, bisogna aggiungere un’ultima, importantissima “angoscia statuale”, che spinge per il Giappone verso un build-up militare quanto, e forse più, delle precedenti: il perenne timore di un disimpegno americano. Specialmente negli ultimi anni, infatti, le minacce di un ridimensionamento della presenza americana in Europa, la costante “ambiguità strategica” mantenuta nei confronti di Taiwan, altro perno della prima catena di isole, nonché vera area di confronto e attrito con la Cina, e la rocambolesca ritirata dall’Afghanistan hanno dato l’impressione di una potenza Usa in fase di ridimensionamento e di razionalizzazione imperiale, e di ritorno all’interno del proprio emisfero di riferimento.

Sono, tuttavia, proprio gli Stati Uniti a rappresentare il principale fattore limitante per il riarmo giapponese. Se infatti un alleato militarmente solido e capace può essere di grande aiuto per le esigenze strategiche di Washington nell’area, un eccessiva capacità bellica del Giappone lo renderebbe anche meno dipendente dalla grande potenza di riferimento per la propria difesa, e quindi potenzialmente più indipendente. Questo esito è estremamente indesiderabile per un’America impegnata nella partita per Taiwan perché, come sottolineato da diversi analisti e commentatori[1], uno degli elementi indispensabili per fermare un offensiva cinese contro l’isola è proprio l’immediato supporto Giapponese, che dovrebbe rinunciare alla propria neutralità mettendo le proprie basi e infrastrutture militari a disposizione della marina militare statunitense.

Giova infine ricordare la guerra commerciale che vide affrontarsi proprio Washington e Tokyo, nel 1983, risoltasi con la minaccia americana di lasciare sguarnita l’isola, che portò ad una brusca fine il tentativo giapponese di diventare la prima economia al mondo. Questo chiarisce, una volta per tutte, come la postura statunitense nei confronti di un aumentata capacità militare giapponese possa essere ambigua, ma allo stesso tempo quanto, sebbene non abbia aspirazioni di politica estera “aggressiva”, il Giappone necessiti di mezzi che gli permettano un’azione diplomatica efficace e capace di tutelare la propria economia.

Le spinte interne

Sebbene la propria opinione pubblica sia la principale ragione che impedisce a Tokyo un riarmo aperto ed esplicito, ci sono due fattori interni che agevolano, e non poco, questo processo. Il primo è la presenza di Mitsubishi Heavy Industries, un enorme conglomerato domestico di industrie pesanti, nonché più grande appaltatore della difesa del Giappone. Una grande industria domestica della difesa permette di mantenere in patria i guadagni derivanti dal processo di consolidamento militare, e lo rende quindi più facilmente digeribile per l’opinione pubblica, ma evita anche che questo dipenda da aziende straniere e sia, quindi, subordinato ad esigenze strategiche altrui[2]. Mitsubishi Heavy Industries ha dichiarato recentemente che si aspetta di registrare ordini record da parte del governo giapponese, con un aumento delle commesse fino al 50%.

Il secondo elemento che rende credibile un consolidamento militare nipponico deriva dal fatto che, pur non essendo formalmente dotato di armi atomiche, al Giappone sarebbe sufficiente la creazione di un efficace programma di sviluppo dei vettori, dal momento che il livello dell’industria nucleare civile è tale da permettere lo sviluppo di un’arma atomica in tempi estremamente brevi.

Fonte: Naval News

Il riarmo c’è, e ci sarà, ma col permesso di Washington

Stretto fra queste spinte sistemiche, che ne vincolano in modo irresistibile l’azione di politica estera, il Giappone ha un ridottissimo margine di manovra per quanto riguarda il proprio riarmo, ulteriormente vincolato dal proprio pacifismo costituzionale, di cui parlavamo in apertura. Nonostante tutto, però, Tokyo ha varato, nel 2022, un piano che prevede il raddoppio delle spese militari entro il 2027. Questo riarmo, che porterà la spesa militare oltre la soglia simbolica, richiesta da Washington anche ai paesi Nato, del 2% del Pil nazionale, avviene però senza ombra di dubbio nell’ambito dell’alleanza a guida americana, nonché in piena funzione anticinese. Contrariamente a quanto successo negli anni ’30, inoltre, l’oggettiva impossibilità di un tentativo egemonico giapponese rende naturale l’alleanza con gli Stati Uniti, che possono quindi permettere, e anzi incentivare, questo piano di riarmo senza timore di rafforzare un proprio potenziale rivale (come avviene invece, in condizioni analoghe, con Berlino). Un’altra differenza estremamente importante riguarda poi gli avversari. Mentre infatti la Germania non ha una spinta “naturale” a scontrarsi con la Russia in Europa, e quindi ad allearsi con gli Usa, il Giappone è naturalmente e storicamente portato alla rivalità con Pechino. Per questo stesso motivo, per Tokyo è naturale la scelta di legarsi alla grande potenza egemone più lontana, e quindi più innocua, contro quella più vicina e incombente.

Alla luce di questi elementi, appare evidente quanto il rafforzamento, seppur minimo, delle proprie capacità belliche possa ampliare i margini di manovra diplomatica del Giappone, che al momento rasentano lo zero.

Foto in copertina: warontherocks


[1] Simulazione di attacco anfibio svolta dal Center for Strategic and International Studies, prendendo in considerazione solo l’ipotesi estrema di un attacco anfibio senza preparazione in loco e “giocata” per 24 volte. Dati riportati dal blog di geopolitica “Inimicizie”.

[2] Si veda, ad esempio, il caso degli Stati Uniti, che non hanno esitato a ritardare la consegna di armamenti venduti a Taiwan, quando questo si è reso necessario per inviare aiuti militari in Ucraina.

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