di Martina Canesi
Per la prima volta da vent’anni, la presidenza autoritaria di Recep Tayyip Erdogan si regge su un filo. A due settimane dal voto di domenica 14 maggio, i sondaggi mostrano come i due candidati per la presidenza siano testa a testa, mettendo in dubbio la possibilità che Erdogan confermi il suo secondo mandato come presidente. Il suo oppositore, Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, è infatti riuscito a riunire i sei principali partiti di opposizione a suo supporto, e ha stilato un piano politico che punta alla ripresa economica e al ristabilimento della democrazia.
Segnali di insofferenza
La Turchia sta infatti affrontando una durissima crisi sociale, economica e finanziaria: a seguito dei terremoti di inizio febbraio e del rialzo all’85% dell’inflazione, il costo della vita è aumentato significativamente, colpendo sia le fasce più povere sia il ceto medio, roccaforte del potere di Erdogan. La responsabilità delle insoddisfacenti politiche economiche degli ultimi anni è ricaduta proprio sul presidente uscente e sul suo interesse predominante per l’assertiva politica estera esercitata nel vicino Medio Oriente. Segnali di una crescente insoddisfazione nei confronti del governo Erdogan erano già presenti quando i candidati della coalizione di governo (AKP-MHP) hanno perso nelle tre città più grandi della nazione(Istanbul, Ankara e Smirne) alle elezioni municipali del 2019. Ciò è stato ulteriormente aggravato dal devastante terremoto di febbraio che ha colpito regioni meridionali della nazione in cui Erdogan aveva sempre goduto di ampio sostegno: l’assenza di prevenzione e la risposta inefficace nelle ore successive alle prime scosse ha messo in luce le numerose responsabilità politiche del governo. Inoltre, un numero crescente di turchi ritiene che sia necessario un cambiamento politico, compresa la riforma costituzionale con un ritorno al parlamentarismo e un aumento della rappresentanza politica tramite la diminuzione della sogna di sbarramento – attualmente al 7%.

La situazione all’opposizione
I partiti all’opposizione appaiono come una galassia poco unita e profondamente condizionata dalla coalizione al potere, e il maggior timore è che una potenziale vittoria alle presidenziali della coalizione porti il Paese in una fase di profonda instabilità politica. Al momento il leader dell’opposizione, nonché il capo del Partito popolare repubblicano (CHP), Kemal Kilicdaroglu, , è riuscito a riunire i sei maggiori partiti d’opposizione: la loro alleanza, tuttavia, è stata creata più con il fine di scalzare dal potere Erdogan che per un vero e proprio sentimento di appartenenza. La coalizione è, infatti, tenuta insieme dal prospetto di implementare riforme di principio, come abolire il presidenzialismo autoritario e ristabilire principi democratici, piuttosto che valori comuni: la composizione è, infatti, talmente variegata che tra i partiti sono presenti sia esponenti di centrosinistra sia di estrema destra. La fragilità delle istituzioni democratiche causata da un ventennio di governo autocratico, inoltre, non fa che peggiorare le prospettive di riuscita politica da parte della coalizione dei sei partiti.

Le implicazioni geopolitiche delle elezioni turche
Prima del terremoto, la campagna elettorale di Erdogan si è quasi completamente incentrata sulla politica estera e sul ruolo svolto dalla Turchia nel Medio Oriente e in Ucraina, soprattutto per distrarre gli elettori dalle numerose questioni interne irrisolte. L’attività turca in questi territori ha sottolineato l’ambiguità di Erdogan nei confronti dei suoi tradizionali alleati occidentali, e la ricerca di una maggior autonomia strategica ha spesso spinto verso contrasti con gli Stati Uniti e un progressivo riallineamento più vicino a Mosca. Indubbiamente i risultati delle elezioni del 14 maggio rafforzeranno o rallenteranno le tendenze in atto, anche se un ritorno totale ad una politica estera pre-Erdogan sembra improbabile visto che sia l’ordine regionale e sia il sistema internazionale sono ampliamente cambiati rispetto ad inizio millennio. Ciò che potrebbe maggiormente variare in base ai risultati delle elezioni presidenziali sono quei rapporti meno definiti dal governo Erdogan. In primo luogo, la posizione turca nei confronti della Cina: fino ad ora, Beijing ha rappresentato un partner commerciale ed economico, relazione che potrebbe persistere o addirittura intensificarsi se il presidente uscente venisse riconfermato. Si prospetta, invece, che una vittoria dell’opposizione possa rappresentare una spinta per la ripresa dei rapporti tra Turchia e Unione Europea che fino ad adesso ha vissuto una fase di reciproco disimpegno, ma che potrebbero essere ripresi se associati ad una progressiva ri-democratizzazione del governo di Ankara. Allo stesso tempo, l’ambigua posizione della Turchia nel contesto della guerra ucraina rappresenterà un nodo da sciogliere per un potenziale governo di opposizione, mentre si presuppone che Erdogan preferisca mantenere il velo di dubbio che ha saputo costruire.
Sembra chiaro come lo scenario attuale, a poco meno di una settimana dal giorno delle elezioni, appaia incerto: come riportano i sondaggi, circa 5.2 milioni di giovani si recheranno alle urne per votare contro il presidente uscente, ma lo stesso risultato elettorale risulta aperto a seguito della stretta autocratica del ventennio Erdogan. Contemporaneamente, i potenziali scenari internazionali sono ancor più ambigui e ipotetici, qualunque sia il risultato di domenica. L’unica certezza è che le elezioni del 14 maggio saranno decisive per il futuro della Turchia, sia che portino ad un ritorno della democrazia, sia che riconfermino il presidente uscente.
Immagine in copertina: Horizon Weekly Newspaper.