di Fabio Naca
In cammino sulla via di Bruxelles
Sin dalla sua nascita in qualità di Stato indipendente, successivamente agli accordi di Dayton del 1995, la Bosnia-Erzegovina è risultata costantemente vittima del proprio sistema politico, tanto intricato quanto poco efficiente. onostante le numerose difficoltà incontrate lungo il cammino, la Bosnia-Erzegovina è stata comunque in grado di costruirsi un presente sempre più vicino al sogno chiamato “Unione Europea”, come anche ribadito dal medesimo Consiglio Europeo nel dicembre 2022, il quale ha ufficializzato lo status di Sarajevo quale candidato all’ingresso nell’UE. Tuttavia, a rinforzare la spinta comunitaria del Paese è stata non solo la conferma unanime degli attuali 27 Membri UE nell’esprimere la volontà di accogliere Sarajevo nel gruppo di lavoro, poiché un certo grado di preoccupazione nei confronti della possibile ingerenza russa a Sarajevo è stata percepita nei corridoi di Bruxelles. Tale paura è indubbiamente dovuta dal comportamento dell’attuale presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, il quale non ha certo fatto mistero delle proprie inclinazioni filo-moscovite negli ultimi anni e, particolarmente, sin dal principio dell’invasione su larga scala a danno dell’Ucraina.
Il dedalo politico bosniaco
Per meglio interpretare chi sia Milorad Dodik e capirne più a fondo l’importanza nelle dinamiche bosniaco-europee contemporanee, un breve sguardo d’insieme al sistema politico della Bosnia-Erzegovina diviene fondamentale. La questione etnica jugoslava, innegabilmente al centro delle motivazioni conflittuali degli anni Novanta, nonostante il suo carattere di primer incendiario nelle medesime guerre sia largamente dibattuto, si riflette fortemente nella composizione territoriale ed istituzionale del Paese, come a tal proposito ribadito dall’articolo 1(3) della costituzione bosniaca, all’interno del quale emerge il carattere federale dello Stato, essendo quest’ultimo fondato sulla Federazione di Bosnia ed Erzegovina e sulla Republika Srpska. L’importanza delle dinamiche etniche è quindi nuovamente visibile nell’articolo 5(3), in cui si snocciola l’essenza della presidenza federale. In sostanza, ognuna delle tre minoranze (croato-bosniaca, musulmano-bosniaca o bosgnacca, e serbo-bosniaca) elegge un proprio rappresentante, e tutti e tre insieme prendono parte alla presidenza collegiale del Paese, a testa della quale si succedono a rotazioni di otto mesi per un periodo di massimo quattro anni. Considerando la possibile confusione terminologica che potrebbe emergere, è necessario specificare che il presidente della federata Republika Srpska non è uno dei tre presidenti collegiali di Bosnia-Erzegovina, i quali sono piuttosto due organi eletti con procedure e termini completamente differenti.
L’evoluzione politica di Dodik e l’avvicinamento a Mosca
Nonostante le posizioni politiche contemporanee facciano trasparire una forte inclinazione tendente al Cremlino, la storia politica di Dodik ebbe in realtà inizio sotto l’ala protettrice dell’Occidente. Nel 1999, l’allora presidente della Republika Srpska, Nikola Poplašen, venne costretto ad abbandonare il proprio ufficio dall’Alto Rappresentante di Bosnia-Erzegovina Carlos Westendorp a causa delle fortissime inclinazioni filo-belgradesi dello stesso Poplašen, interpretate negativamente dall’Occidente che, nelle settimane successive, si renderà anche protagonista di una campagna di bombardamenti aerei mirati all’annichilimento della Serbia. A sostituire Poplašen fu proprio Dodik, all’epoca esponente della piccola formazione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), ritenuto personaggio ottimale per indirizzare anche la recalcitrante entità filo-belgradese su un sentiero più confacente agli obiettivi di pace preposti.
Tuttavia, la positività intravista dall’Occidente nei confronti di Dodik andò dissipandosi con il passare degli anni, principalmente a causa di alcune promesse non mantenute dalla Republika Srpska percepite come fondamentali nel processo di ricongiunzione e transizione democratica del Paese. Le maggiori difficoltà sono tuttavia emerse durante il decennio scorso, quando Dodik, seppur non sempre investito di cariche istituzionali, è comunque riuscito nel tentativo di aizzare la folla serbo-bosniaca verso una possibile secessione da Sarajevo, con l’idea futura di favorire un progressivo riavvicinamento, anche territoriale, verso Belgrado, ossia la medesima manovra a causa della quale Poplašen era stato destituito più o meno dieci anni prima. Da quel momento in avanti, il rapporto tra Dodik e l’Occidente è andato incrinandosi sempre più, incagliandosi sui frastagliati scogli della questione ucraino-russa in Crimea, in merito alla quale l’attuale leader serbo-bosniaco si è da sempre dichiarato arduo sostenitore dell’indipendenza della regione da Kiev, e addirittura sul negazionismo del genocidio perpetrato per mano serba nei confronti della popolazione musulmana negli anni Novanta. A proposito delle stragi belgradesi a danno delle comunità musulmane di Bosnia, Dodik si fa infatti beffe da molti anni asserendo che “la comunità internazionale ha tentato di imputare la responsabilità per il genocidio – che non è mai avvenuto – su un’intera nazione, e anche di zittire ed intimidire tutti coloro che adottano un’interpretazione diversa su quanto avvenuto a Srebrenica”.
Nonostante la chiara inclinazione anti-occidentalista incarnata da Dodik negli ultimi anni, che si è presto tramutata in una serie di sanzioni economiche ad personam, le prese di posizione in favore dell’ingresso di Sarajevo nell’UE hanno acquisito una verve più decisa sin dall’inizio dell’invasione su larga scala per mano russa sul territorio ucraino nel febbraio 2022. Oltre alle rinomate dichiarazioni rilasciate alla stampa, per mezzo delle quali l’attuale presidente della Republika Srpska conferiva piena legittimità all’attacco armato moscovita, a preoccupare Washington D.C., e soprattutto Bruxelles, è una serie di ancor più contemporanei progetti politici. Tra questi, due appaiono maggiormente problematici per lo stato di diritto bosniaco e per le relazioni internazionali del Paese: da un lato, l’intenzione di Dodik di approvare un nuovo testo legislativo tramite il quale le ONG e le associazioni civili straniere potrebbero essere riconosciute come “agenti stranieri”, in maniera del tutto simile a quanto già avvenuto in Russia nel 2020; dall’altro, la volontà di costruire un gasdotto e alcune centrali elettriche totalmente dipendenti dalle forniture di Gazprom in collaborazione con Mosca. Inoltre, le recenti parole proferite sempre da Dodik contro le percepite ingerenze americane e britanniche negli affari interni della Republika Srpska e della Bosnia-Erzegovina intera, tramite le quali il presidente serbo-bosniaco ha minacciato di tagliare i legami diplomatici con entrambi i Paesi coinvolti, non contribuiscono certo a tranquillizzare un fattispecie già di per sé precaria.
Bosnia-Erzegovina e l’europeizzazione: Quale destino?
A fronte delle difficoltà percepite da Bruxelles nell’avvicinare l’opinione pubblica serbo-bosniaca alla causa comunitaria, anche e soprattutto in virtù della destabilizzazione propagandistica coordinata sull’asse a tre vertici Banja Luka – Belgrado – Mosca, non sorprende pertanto l’espressione pubblica di sensazioni di necessità ed incombenza nell’attuare una serie di riforme, ritenute essenziali per far sì che Sarajevo possa finalmente entrare nell’area UE. In questa chiave si sono anche espressi l’Alto Rappresentante dell’Unione per le Politiche di Sicurezza e di Difesa, Josep Borrell, il quale ha affermato quanto sia “necessaria una seria accelerazione delle riforme prima che inizino i colloqui di adesione”, ed anche il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che in un breve tweet ha sancito “una chiara aspettativa nei confronti delle autorità [bosniache] di implementare efficacemente le riforme”.
Nonostante le aspettative siano chiare, la questione etnico-identitario-nazionalistica in Bosnia-Erzegovina, che affonda le proprie radici in tempi addirittura antecedenti agli stessi Stati moderni, rimane di difficile soluzione. Accelerare i tempi per mettere in atto le riforme necessarie ad un ingresso in UE può portare solo benefici per la popolazione locale guardando a prospettive economiche, politiche, sociali e culturali. Eppure, al contempo, non bisogna ignorare il forte richiamo delle richieste di Banja Luka, che per quanto espresse in termini inaccettabili per mezzo del portavoce Dodik, si rifanno cionondimeno ad una maggioranza popolare di rilievo, almeno guardando ai numeri della Bosnia-Erzegovina. In questo senso, una risposta istituzionale forte di una predisposizione negativizzante a priori avrebbe come effetto naturale l’ingresso di un altro annoso conflitto separatista in uno Stato membro dell’UE, alimentando di fatto la già pesante aria che si respira alle latitudini catalane e corse.
Immagine di copertina: EPA/Stephanie Lecocq | In una foto del 2019, Milorad Dodik (a sinistra), allora uno dei presidenti collegiali della Bosnia-Erzegovina, incontra Johannes Hahn (a destra), Commissario UE per l’Allargamento, a Bruxelles.