di Fabio Naca
Il triumvirato dell’Oceano Indiano
In maniera del tutto simile a ben note dinamiche politico-economiche presenti su scala globale, l’Oceano Indiano si presta ad un’analisi geopolitica che ha visto, negli ultimi anni, una più preponderante presenza cinese a discapito di quella che era sino ad allora un’indiscussa superiorità americana. Tuttavia, se dalla parte di Pechino v’è l’intenzione di proseguire con la realizzazione della cosiddetta “collana di perle”, ossia la composizione geografica all’interno degli Oceani Pacifico e Indiano che costituisce l’ideale cumulo delle linee difensive marittime cinesi, la rincorsa di Nuova Delhi potrebbe per il momento rappresentare un’arma in più per Washington nel tentativo di contenere l’espansionismo cinese nell’Oceano Indiano, come visibile per esempio dai recenti accordi conclusi tra India ed Egitto. Particolarmente importante per gli sviluppi economici e le alleanze americane è il ruolo ricoperto dalla penisola araba ed i suoi dintorni, con menzione speciale per il Mar Rosso ed i suoi centri nevralgici come il canale di Suez e lo stretto di Bab el-Mandeb. Da questo punto di vista, non è un caso che al centro delle dinamiche egemoniche sia capitato Gibuti, ossia il piccolo Stato che si affaccia proprio sul sopraccitato punto più stretto del braccio di mare che separa il continente africano dalle sponde dello Yemen, poco più a nord del celeberrimo golfo di Aden. Mentre la presenza statunitense è andata rinsaldandosi con il passare degli anni attorno alla base di Camp Lemonnier, ossia uno degli avamposti della US Navy più importanti nonché l’unica costante militare americana nell’Africa sub-sahariana, a partire dal 2017 anche la Cina è stata in grado di ritagliarsi una fetta della torta a proprio vantaggio, costruendo da zero un avamposto per la propria marina militare a poco meno di 10 km di distanza in linea d’aria dal quasi-dirimpettaio Zio Sam.
Considerando i pericoli che conseguirebbero ad un’eventuale allentamento della presa strategica sul Mar Rosso, non sorprende pertanto che già la seconda amministrazione Obama avesse siglato senza troppi pensieri un accordo con il governo gibutiano per mantenere di stanza più di 4.000 militari a Camp Lemonnier per almeno i prossimi venti anni.
Tra economia e guerra al terrore: Gli USA in soccorso di Mogadiscio
Nonostante l’importanza geostrategica ricoperta da Gibuti, il terreno di scontro al momento più maturo sembra tuttavia attanagliare la fragile territorialità somala, tenuta sotto scacco da diversi anni sia per mano degli eserciti di territori separatisti, Somaliland su tutti, sia tramite il ricorso ad attentati terroristici delle milizie jihadiste di al-Shabaab. Come visibile in una recente pubblicazione, la linea intrapresa dal governo a guida di Hassan Sheikh Mohamoud sembra aver inesorabilmente preso la strada per Pechino, con una lista comprendente decine di anni di amicizia reciproca e, soprattutto, milioni di motivi economici sotto forma di investimenti diretti allo sviluppo economico del Paese. Tuttavia, la predisposizione apparentemente sfavorevole di Mogadiscio non sembra aver fermato la volontà americana di giocarsi le migliori carte per asserire la propria presenza a gran voce. A tal proposito, due sono i più evidenti simboli di vicinanza diplomatica espressi da Washington alla controparte locale. In primo luogo si staglia il recente accordo tra l’esecutivo somalo e la Coastline Exploration Ltd., una compagnia petrolifera battente bandiera stelle-e-strisce, concluso nell’ottobre 2022 e autorizzante la medesima Coastline ad acquisire i diritti di esplorazione petrolifera su ben sette settori offshore, i più distanti dalla costa mai venduti da Mogadiscio a tal fine.
In seconda battuta, non bisogna dimenticare il ruolo tutt’altro che desueto ricoperto dai militari yankee in questa parte di mondo, ossia primariamente impegnati nella oramai decennale war on terror, che in Somalia si concentra prevalentemente sul contrasto ad al-Shabaab. A tal proposito appare interessante il repentino cambio di atteggiamento dell’amministrazione americana, manifestatosi con forza attraverso il diverso approccio del nuovo ambasciatore a Mogadiscio, Larry André Jr., rispetto al suo predecessore Donald Yamamoto, in carica dal 2018 al 2021. In tale prospettiva, Yamamoto era infatti noto per appoggiare senza particolare remore la politica particolarmente disinteressata, per usare un eufemismo, dell’allora presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmaajo”, il quale si distinse per la continua ricerca di impadronirsi di un potere regionale a discapito delle vicine Eritrea ed Etiopia favorendo proprio la crescita di al-Shabaab, organizzazione che di fatto era riuscita durante tale periodo ad inquadrare nel proprio mirino i paesi confinanti con la Somalia. In maniera del tutto contraria si è ciononostante schierato il nuovo titolare della missione diplomatica statunitense nella regione, André Jr., il quale, sostenendo la rinnovata politica di Mohamoud, ha non solo confermato al presidente somalo la piena collaborazione nella lotta al terrorismo, ma ha addirittura scacciato ogni possibile pericolo di riconoscimento della sovranità del Somaliland, riasserendo con decisione la One Somalia policy in vigore alla Casa Bianca.
Non è tutto oro quel che luccica in terra somala
Eppure, nonostante la posizione degli Stati Uniti sembri inequivocabilmente indirizzata lungo il binario che porta dritto alla residenza presidenziale di Mohamoud, più di qualche indizio riporta sulla scena la spesso sottovalutata importanza del recalcitrante Somaliland, invischiato in una contesa territoriale con la oramai ex-madrepatria per il controllo del settentrione del Paese. In primo luogo, nonostante le numerose parole in supporto dell’assoluta sovranità e dell’integrità territoriale della Somalia, è lo stesso ambasciatore André Jr. a creare qualche grattacapo a Mogadiscio, poiché sono ben in vista le prove che dimostrano la vicinanza tra Washington e le realtà indipendentiste locali, come ad esempio evidenziato dalla medesima dicitura rinvenibile sul sito dell’ambasciata statunitense in Somalia, che riporta le seguenti parole tradotte dall’inglese: “Il mio staff ed io manteniamo i contatti con ognuno degli Stati federati e con il Somaliland. Prima di intraprendere qualsivoglia programma in Somalia, che sia esso inerente a sicurezza, questioni umanitarie, sviluppo economico, o servizi governativi, ci coordiniamo innanzitutto con il Governo federale della Somalia”. Insomma, parole non certamente ricolme di supporto unilaterale ed incondizionato verso Mogadiscio, o almeno questa è la chiave di lettura di Mohamoud e colleghi.
Tuttavia, questo cerchiobottismo diplomatico, che a scanso di equivoci è prassi affermata per la maggioranza dei Paesi mondiali, sembra particolarmente confusionario nel caso americano per quanto riguarda la situazione somala, poiché i problemi principali da questo punto di vista non sono tanto evidenti in loco, quanto piuttosto negli stessi corridoi di Washington. Se da una parte l’amministrazione Biden ha più volte ribadito la propria intenzione di non riconoscere l’indipendenza al Somaliland, pur asserendo con parole di circostanza che gli States si impegnano a tenerne in considerazione lo status di attore protagonista, dall’altra parte si è stagliato con forza il Congresso, il quale ha accettato nel 2022 l’Atto di approvazione del bilancio per la difesa nazionale per l’anno fiscale 2023, all’interno del quale testo si parlava in maniera esplicita (Sec. 1275) di programmi di finanziamento destinati allo sviluppo economico del Somaliland, caso che costituisce una novità senza precedenti sin dalla dichiarazione di indipendenza di Hargheisa. A rincarare la già non esigua dose di dubbi, che sicuramente saranno balenati nei pensieri dei plenipotenziari di Mogadiscio, è stata quindi la netta posizione presa per mezzo del più autorevole esponente repubblicano alla commissione affari esteri del Senato, James Risch, il quale ha sentenziato senza troppi giri di parole che: “Il Corno d’Africa sta affrontando una serie crescente di sfide, eppure il Dipartimento di Stato continua a lavorare in un quadro di politiche estemporanee e schemi diplomatici inadatti alle difficoltà odierne”, riferendosi con tali perifrasi alla One Somalia policy di cui Biden si è fatto fiero condottiero.
Quale soluzione all’impasse?
In un contesto geopolitico somalo già di per sé favorevole alla Cina in virtù degli enormi passi in avanti intrapresi da Pechino nella regione, gli Stati Uniti si ritrovano indubbiamente coinvolti in un presente pieno di incognite, il quale non può tuttavia giustificare un simile atteggiamento cerchiobottista di Washington nei confronti di Mogadiscio e Hargheisa nell’attesa che il rapporto di forze regionale venga consolidandosi a causa di una sempre più prorompente presenza dei principali competitors statunitensi di cui sopra. Da questo punto di vista, come richiesto da qualsiasi sistema democratico sano e specialmente all’interno del Paese leader del blocco occidentale, una politica estera decisa non può essere mai figlia di una continua lotta partitica intestina, motivo per il quale le elezioni del novembre 2024 rappresentano un vero e proprio spartiacque per provare ad intercettare la traiettoria degli Stati Uniti sulla sempre più incerta scacchiera che sono le relazioni internazionali contemporanee.
Immagine di Copertina: Sgt. Austin Hazard | Un AV-8B Harrier della USAF presso Camp Lemonnier