La ricchezza del deserto
È notizia di poche settimane fa la scoperta di un bacino petrolifero in Somalia, per la prima volta nella storia del Paese avvenuta nel sottosuolo terrestre dopo numerose trivellazioni a largo delle coste di Mogadiscio. Tuttavia, considerando la zona all’interno della quale è avvenuto il ritrovamento, sarebbe più opportuno parlare di Somaliland, ossia dello Stato de facto ivi locato, ma non riconosciuto dalle Nazioni Unite, e comprendente grosso modo la quasi interezza della porzione settentrionale del territorio somalo comunemente rappresentato. Ad effettuare le ricerche e a diffondere la notizia di tale ritrovamento è stata la Genel Energy PLC, compagnia petrolifera battente bandiera britannica che ad agosto 2012 aveva acquisito il 100% dei working interests su una superficie di circa 40.000 km2 proprio nel Somaliland (per working interests si intende un investimento nel settore petrolifero per cui l’investitore è direttamente responsabile per una percentuale dei costi associati all’esplorazione, alla trivellazione e alla produzione dell’impianto, ma è al contempo premiato dalla possibilità di partecipare ad una fetta dai proventi post-vendita).
A partire dal 2021, la OPIC Somaliland Corporation ha acquisito il 49% dei working interests del lotto SL10B13 proprio da Genel, e a rendere più interessante il quadro da una prospettiva geopolitica è il fatto per cui la CPC Corporation, ossia una società a direzione statale taiwanese, ha messo a disposizione della OPIC tutto il capitale necessario a concludere la suddetta operazione. Come sottolineato da diversi osservatori, nonché già dalla medesima società britannica, il ritrovamento di questo bacino petrolifero si presenta come investimento dall’importanza economicamente e politicamente strategica per l’economia della Corona, poiché lo stabilimento di raccolta, del quale è lecito attendersi la costruzione nel prossimo futuro, sorgerebbe a 150 km da Berbera, ossia il porto più importante della regione e sito esattamente all’imbocco del Mar Rosso. Diventa a questo punto facile constatare che la possibilità di arricchirsi con l’export di petrolio rappresenta per il Somaliland un’opportunità storica, specialmente considerando che le entrate statali segnalate nel 2022 ammontano a circa appena 7 miliardi di euro, la maggior parte dei quali derivanti dalle rimesse di lavoratori locali impiegati all’estero.
La travagliata ricerca dell’indipendenza
Come accennato in precedenza, la situazione politica nella regione è tutt’altro che pacifica, e tale bellicosità è innanzitutto riconducibile alle forti tensioni intercorrenti tra il governo dell’autoproclamato Stato del Somaliland, intenzionato a procedere con il piano prospettato da Genel servendosi dell’aiuto di Taipei, e la Somalia. Parlando di violenza interstatale nel contesto somalo, è necessario ricordare come già dal 1960 esistono tensioni in merito al ruolo dei governi rispettivamente di Hargheisa e Mogadiscio, all’interno dei quali esistevano notevoli differenze già al momento dei primi dialoghi inerenti ad una possibile unificazione territoriale, soprattutto considerando che le precedenti esperienze governative (dominio inglese in Somaliland e colonialismo italiano in Somalia) differivano notevolmente in chiave economico-sociale. Queste stesse tensioni sono pertanto alla base del quadro che oggi traspare osservando il Corno d’Africa, con il Somaliland che, dopo trent’anni di convivenza difficoltosa con Mogadiscio, decise nel 1991 di staccarsi e divenire un’entità indipendente, almeno stando alla definizione di “Stato” secondo i canoni tradizionali del principio vestfaliano e dei criteri codificati attraverso la Convenzione di Montevideo del 1933.
A tal proposito, la Somalia non ha mai nascosto la propria avversione alla legittimità dei possedimenti territoriali di Genel, invalidando di fatto anche la paternità dei ritrovamenti più recenti. Eppure, il fronte dello scontro appare ben più vasto di una scarsa relazione diplomatica, poiché il potenziale del conflitto economico è da considerarsi anche e soprattutto dalla prospettiva delle relazioni sino-taiwanesi. Come evidenziato in precedenza, gli investimenti, e logicamente anche i proventi, della CPC Corporation di Taipei sono centrali negli attuali e futuri sviluppi del settore petrolifero in Somaliland. Inoltre, le storie della Repubblica Cinese di Taiwan e del Somaliland si somigliano notevolmente in chiave di relazioni internazionali. Ad esempio, entrambe le realtà statali erano state in un primo momento riconosciute come legittimi interlocutori, visto che anche il Somaliland, prima di unificarsi con Mogadiscio, aveva ottenuto il riconoscimento quale entità indipendente da parte di Stati afferenti ai blocchi occidentale ed orientale nel giugno 1960. Tuttavia, in maniera del tutto simile a quanto occorso nell’ottobre 1971, con l’ONU che riconobbe Pechino quale unico governo legittimo cinese a discapito di Taipei, anche Hargheisa non ha ottenuto un seggio di Stato membro all’interno dell’Assemblea Generale dopo la dichiarazione di indipendenza del 1991, con solo qualche sparuto Stato (come Etiopia, Yemen o la stessa Taiwan dall’estate 2020) ad intessere relazioni diplomatiche nell’ex colonia britannica.
L’allargamento cinese nel Corno d’Africa
Allo stesso tempo, è fondamentale ricordare come Pechino rivesta un ruolo centrale nelle dinamiche politiche ed economiche del governo di Mogadiscio. Il Observatory of Economic Complexity (OEC) offre a tal proposito un quadro inoppugnabile: la Cina rappresenta per la Somalia il quinto Paese più redditizio in merito all’export, nonché il secondo più presente in termini di import, con gli scambi commerciali comprendenti quasi esclusivamente la vendita da parte somala di materie prime in cambio di prodotti (semi)lavorati. È in questo quadro che si può quindi procedere a leggere con più attenzione e tra le righe il discorso dell’ambasciatore della Repubblica Popolare in Somalia, Fei Shengchao. Infatti, il 10 novembre scorso, questi ha pubblicato un articolo a margine del 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese, all’interno del quale descriveva il presente e futuro rapporto tra Somalia e Cina come innestato su di una profonda amicizia ed un rinnovato impegno da parte di Pechino nel fornire assistenza al governo del Paese africano, al momento guidato da Hassan Sheick Mohamud, per la ricostruzione ed una pacifica indipendenza, scansando di fatto le pretese territoriali del Somaliland ed altri attori coinvolti in processi di autodeterminazione, non ultimo il Puntland. Inoltre, come sottolineato in una pubblicazione del The Exchange del novembre 2022, gli investimenti cinesi in Somalia vanno ben oltre la semplice vendita di prodotti finiti, poiché sono stati accordati appalti per la costruzione di oltre 80 nuove infrastrutture dall’importanza centrale per un Paese scarsamente sviluppato come la Somalia, tra le quali si contano un’autostrada lungo l’asse settentrionale-meridionale, un ospedale a Banadir e uno stadio.
Considerando i sopra-evidenziati legami diplomatici ed economici tra Cina e Somalia, e avendo inoltre riguardo per il fatto che Pechino consumava nel 2021 circa 5,5 miliardi di barili di petrolio l’anno e quasi 50% dell’import complessivo di combustibili fossili nazionale proveniva dagli intorni della penisola araba, non sorprenderebbe attendersi una reazione del governo guidato da Xi Jinping in merito al ritrovamento sopracitato. A tal proposito, è bene sottolineare come alcune stime in merito al giacimento britannico onshore del Somaliland prevedano la presenza di quasi 30 miliardi di barili di petrolio, quantità non certamente irrisoria se si pensa che il metro di riferimento mondiale per giacimenti convenzionali sia il campo di Ghawar in Arabia Saudita (circa 55 miliardi di barili di riserve, di cui 48 ancora disponibili all’estrazione).
Un nuovo teatro di scontro imperialista
Come lecito aspettarsi all’interno di un mondo sempre più interconnesso e fortemente segnato dall’incertezza, non sono solamente gli aspetti positivi fondati sulla cooperazione internazionale a toccare sempre più territori sul globo, bensì anche le continue tensioni non armate tra Paesi solo sulla carta non belligeranti, come ad esempio la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. Il caso del Somaliland non è che l’ultimo di una lunga serie all’interno di tale contesto, eppure dall’analisi precedentemente apportata è facile capire come l’importanza strategica rivestita da un singolo campo petrolifero, perlopiù all’interno di un deserto fino a qualche anno fa completamente inesplorato, possa sovvertire dinamiche di potere tanto a livello locale quanto sullo scenario mondiale. Mogadiscio e Pechino da una parte, Taipei e Hargheisa dall’altra: quattro Stati de facto indipendenti e capaci di esercitare le proprie funzioni, che nella realtà diventano tuttavia due schieramenti con alleanze e risorse notevolmente sbilanciate. Lo scenario che si prospetta nel Corno d’Africa, anche alla luce delle pulsioni imperialiste della stessa Cina e alle possibili risposte degli Stati Uniti stessi, lascia spazio a molteplici possibili evoluzioni, all’interno delle quali sarebbe inoltre sensato aggiungere il Regno Unito che, forte di una rinnovata volontà di rimettersi in luce sullo scacchiere globale dopo l’uscita dall’UE, potrebbe sfruttare gli investimenti di Genel come “piede nella porta” per ritornare a giocare un ruolo di prim’ordine nell’Africa orientale.
Immagine in copertina: Horn Diplomat.