Di Arianna Beltrame

Da metà settembre il Paese è scosso da un’ondata di manifestazioni che si caratterizzato per la loro estensione geografica e sociale. L’inizio delle proteste è legato alla morte di una giovane ragazza di minoranza curda, Mahsa Amini. Il decesso è avvenuto mentre si trovava in custodia della polizia religiosa, da cui era stata fermata perché non avrebbe indossato correttamente il velo islamico. Quest’ultimo è infatti obbligatorio da inizio anni Ottanta. L’assenza di definizioni specifiche in merito a ciò che un ‘hijab indossato male’ possa significare, e nonostante un generale rilassamento delle misure punitive a partire dal 2018, fa sì che la polizia religiosa disponga di un alto grado di discrezione nell’interpretazione della legge e nella scelta della pena.

Le proteste, scoppiate inizialmente nella città di origine di Mahsa e nella capitale Teheran, si sono presto diffuse in tutto il resto del Paese. La risposta del regime non si è fatta attendere. La repressione manifesta nelle strade è stata presto accompagnata da rapimenti e torture che hanno riportato alla memoria ciò che era avvenuto già durante le proteste del 2019. La macchina del regime ha colpito ancora più duramente a metà novembre attraverso la prima condanna a morte legata alle proteste. La sentenza, eseguita ad inizio dicembre, è stata solo la prima di numerose che hanno portato, finora, alla morte di quattro manifestanti. Questi ultimi rappresentano solo la punta dell’iceberg rappresentato dalla conta di 520 morti tra le fila dei manifestanti e più di 19 mila persone arrestate dall’inizio delle proteste. Inoltre, nei primi giorni di gennaio, l’ayatollah Ali Khamenei ha nominato come nuovo capo delle forze di polizia Ahmadreza Radan. L’ex membro dei Pasdaran è stato sanzionato più volte da Stati Uniti ed Unione Europea con l’accusa di aver perpetrato o ordinato la commissione azioni che rientrano nella categoria di violazione dei diritti umani. Questa scelta fa pensare alla volontà da parte dell’establishment iraniano di un inasprimento nella gestione delle proteste e nella repressione dei manifestanti.

Le proteste scoppiate per la morte di Mahsa Amini si concentravano sulle donne e sull’obbligo di velo; quello che vediamo oggi sono manifestazioni che arrivano a mettere in discussione il regime teocratico. Fonte: Associated Press

Narrativa del regime

Riguardo alla legge che obbliga il corretto utilizzo del velo islamico per le donne in Iran, il regime ha mosso passi, seppur incerti. Il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri a inizio dicembre ha fatto una dichiarazione che alludeva alla discussione di un’eventuale modifica della legge a livello parlamentare e giudiziario. Questo spiraglio è stato supportato da una dichiarazione del presidente Raisi che ha fatto intendere una possibile apertura a modifiche costituzionali, pur mantenendo lo stretto legame tra i fondamenti repubblicani e islamici del Paese. Inoltre, negli stessi giorni, è stata diffusa la notizia per cui Montazeri avrebbe anche comunicato il futuro scioglimento della polizia morale, corpo che ha iniziato la propria attività di pattuglia nel 2006 con lo scopo di controllare e far rispettare il codice di abbigliamento imposto dal regime. Tuttavia, a tal proposito, il governo non ha confermato tale misura e si è parlato di fraintendimento delle parole del procuratore generale.

Circa un mese dopo è arrivata la conferma che le cose, per il momento, non sembrano prendere la strada dell’eliminazione dell’obbligo o dello scioglimento della polizia morale. Infatti, l’agenzia di stampa Fars ha annunciato una nuova fase del programma Nazer-1 (“sorveglianza” in farsi). Questo programma garantirebbe il controllo del corretto utilizzo dell’hijab anche negli abitacoli delle auto. Di fronte ad una violazione dell’obbligo, la donna interessata riceverebbe un messaggio SMS in cui le verrebbe chiesto di ‘rispettare le norme della società’. Sembrerebbe dunque che attualmente il regime teocratico iraniano non abbia intenzione di modificare uno dei fondamenti della Rivoluzione.

Le proteste, tuttavia, non sono unicamente rivolte all’obbligo di velo. Presto agli slogan “donne, vita e libertà” si è affiancato quello più specifico e diretto di “morte al dittatore”. Un dissenso tanto forte è difficilmente placabile con eventuali modifiche di una legge come quella dell’obbligo del velo islamico. Pertanto, già da metà ottobre, il regime ha iniziato ad utilizzare la carta dell’ingerenza occidentale per spiegare queste proteste. Infatti, il presidente Raisi e il governo iraniano accusano in primis Stati Uniti ed Israele, seguiti poi da Europa e in generale il “mondo occidentale”, di essere responsabili del clima di dissenso e delle proteste. In particolar modo gli Stati Uniti starebbero incitando “caos, terrore e distruzione” in Iran.

Negoziazioni per l’accordo sul nucleare iraniano

In questo contesto di disordine interno, è importante collocare le negoziazioni per l’accordo sul nucleare iraniano per capire come questa carta potrebbe essere usata dall’Iran e dall’Occidente. Innanzitutto, il Joint Comprehensive Plan of Action, conosciuto come l’accordo sul nucleare iraniano, è un accordo del 2015 tra sei stati e l’Iran che poneva dei limiti all’attività nucleare di quest’ultimo. Tale accordo si trova in una situazione di stallo dal 2018, da quando cioè l’allora presidente americano Donald Trump decise di far uscire unilateralmente gli Stati Uniti e di restaurare le sanzioni nei confronti dell’Iran. La risposta di quest’ultimo è stata quella di una progressiva riduzione del rispetto degli obblighi imposti dall’accordo, il quale, formalmente, resta in vigore. I progressi fatti nel 2021, che avrebbero visto il rientro degli Stati Uniti nell’accordo e il ripristino dei limiti da esso imposti ai livelli di arricchimento dell’uranio in Iran, sono stati resi vani dall’elezione del presidente Raisi – seguita da una nuova fase di stallo.

Nell’agosto scorso la proposta di Josep Borrell per il rilancio del JCPOA sembrava avere il potenziale di mettere d’accordo le parti, ma il clima internazionale è presto cambiato con la repressione dei manifestanti in Iran.
Fonte:Abedin Taherkenareh/EPA/Shutterstock

Ad inizio agosto 2022 la situazione sembrava essersi sbloccata attraverso un nuovo dialogo a Vienna tra funzionari iraniani e dell’Unione Europea sulla base di una proposta avanzata da Josep Borrell. A fine mese la firma della proposta appariva imminente. Il rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano avrebbe comportato, tra le altre cose, lo scongelamento di 7 miliardi di dollari “bloccati” in Corea del Sud in cambio di un ridimensionamento del programma nucleare iraniano. Nel momento in cui questo rilancio appariva possibile, persistevano comunque alcuni potenziali ostacoli, come la designazione da parte degli Stati Uniti del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche come “organizzazione terroristica straniera” o il desiderio iraniano di ‘vendetta’ per l’uccisione del generale Soleimani. Quando la firma sembrava prossima, il clima internazionale è stato scosso dalle proteste e dalla repressione.

Gli intermediari dell’Unione Europea che partecipano alle negoziazioni hanno insistito sulla necessità di mantenere separate la discussione sul JCPOA e le altre questioni iraniane, in particolare la repressione interna e la vendita di armamenti alla Russia. Tuttavia, i dialoghi per il rilancio dell’accordo e il rientro degli Stati Uniti appaiono lontani. Questo sembra essere stato confermato da un “fuorionda” del presidente americano Biden che avrebbe dichiarato, senza successive smentite, che il trattato sarebbe “morto. Questo comportamento appare in linea con l’idea secondo la quale il sollevamento delle sanzioni in questo particolare momento rappresenterebbe una mossa ambigua da parte dell’‘Occidente’, sia nei confronti dei manifestanti iraniani sia dell’Ucraina.

Il fatto che un’eventuale ripresa delle negoziazioni potrebbe mettere in difficoltà l’Occidente è qualcosa di molto chiaro al regime di Khamenei. L’Iran, infatti, continua a sostenere la fattibilità del progetto e del rilancio del programma. In una recente dichiarazione l’ambasciatore iraniano a Roma ha infatti dichiarato che la responsabilità del ritardo nei negoziati è da attribuire alla volontà dei Paesi occidentali.

Stati Uniti ed Unione Europea si trovano di fronte a un dilemma: proseguire con le negoziazioni trascurando la repressione interna o aspettare rischiando di perdere l’opportunità per un accordo? Fonte: US Dept. of State

Futuro dell’accordo sul nucleare alla luce della repressione

Per cercare di capire quale ruolo giocherà la “carta del nucleare” è importante avere a mente la premessa fatta sulla situazione interna in Iran. Da una parte, Stati Uniti ed Occidente si trovano di fronte ad un dilemma. Come ricordato dai funzionari dell’Unione Europea, l’importanza di un nuovo accordo sul nucleare non può essere messa da parte. Nell’instabilità e nella paura di un’Europa che si trova ancora una guerra ai propri confini, pensare di non fare tutto il possibile per disarmare un Paese potenzialmente ostile non è concepibile. Non è nell’interesse dell’Unione Europea né degli Stati Uniti il taglio netto del dialogo sul nucleare. Ciò significherebbe spingere irrevocabilmente l’Iran ‘tra le braccia’ della Russia. Tuttavia, la ripresa dei negoziati e l’eventuale firma di un nuovo accordo potrebbero mostrare una “debolezza” diversa. A passare sarebbe il messaggio per cui il rispetto dei diritti umani e, nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, del diritto internazionale è da intendersi solo quando la posta in gioco non è troppo alta. Dall’altra parte, Khamenei e il regime non sono solo a conoscenza di questo dilemma, ma sono più che intenzionati a sfruttarlo. Per questo motivo l’Iran continuerà probabilmente a mostrarsi aperto al dialogo e alla firma del nuovo accordo, giudicando pubblicamente il silenzio occidentale.

A complicare il quadro, il futuro delle proteste in Iran non è chiaro. L’esito che queste manifestazioni avranno sulla costituzione e sul regime teocratico non è al momento prevedibile. Se da una parte i funzionari dell’Unione hanno evidenziato l’importanza del raggiungimento di un accordo a prescindere dalla situazione interna, dall’altra gli Stati Uniti sembrano non decidersi sulla giusta strada da intraprendere. Non c’è la certezza che le manifestazioni in Iran porteranno ad un cambio di regime e quindi al dialogo con un attore diverso. Inoltre, anche se questa certezza ci fosse, non si potrebbe prevedere che tipo di ordine seguirebbe e quanto tempo ci vorrebbe per istituirlo. Quel che è certo è che nel 2023 l’Iran sarà un osservato speciale, sia per la gestione delle proteste e il tema dei diritti umani, sia per il futuro del JCPOA e del progetto di non proliferazione nucleare.

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