In Cina non si protesta? Primo mito da sfatare
Si è soliti pensare ad una Cina con una dichiarata attitudine alla repressione del dissenso interno, sebbene le manifestazioni non siano un fenomeno nuovo. Questi “incidenti di massa” – così vengono definiti dal PCC – negli ultimi decenni hanno assunto la forma di manifestazioni sporadiche, riguardanti gruppi d’interesse ridotti e istanze locali. Tali proteste, le cui cifre ufficiali sono pressoché impossibili da reperire con certezza, hanno sinora avuto scarsa risonanza internazionale e deboli ricadute interne a causa della loro natura sconnessa e disorganizzata. L’odierna ondata di proteste in Cina desta scalpore non solo perché espressione di un’insoddisfazione nei confronti della politica Zero-Covid, ma in quanto catalizzatore che ha permesso di incanalare molteplici rimostranze latenti in una comune opposizione al regime.
Ecco perché le manifestazioni che oggi si sperimentano in Cina sono strutturalmente eccezionali. Sono inedite perché decine di migliaia di cinesi, sparsi in città lontane chilometri le une dalle altre, protestano a gran voce contro le politiche attuate dal governo, contro le misure restrittive di un lockdown che sembra non avere fine. Sono sintomo di un’insoddisfazione profonda nei confronti della leadership attuale: un malcontento che trova sfogo nell’esplicita richiesta a Xi di dimettersi. Sintomi di tale malessere erano già emersi alla vigilia del XX Congresso del PCC, dopo l’affissione di due manifesti con accuse alla leadership, una modalità di contestazione rarissima in un contesto di ferrea sorveglianza.
Le proteste sono iniziate dopo la tragedia di Urumqi, nella provincia dello Xinjiang, in cui, a causa delle misure anti-Covid, è stato impossibile salvare la vita a dieci persone intrappolate in un edificio avvolto dalle fiamme. Le restrizioni hanno reso difficoltosa la fuga e persino ostacolato l’arrivo dei soccorsi, scatenando l’ira dei residenti, i quali hanno prontamente registrato e tentato di diffondere l’accaduto su Weibo e altre piattaforme.
A rischio la sopravvivenza della Cina o la credibilità del “Nuovo Timoniere”?
Mentre il mondo si è riaffacciato alla normalità, il perseguimento della politica Zero Covid relega oggi il Dragone ad uno stato di paralisi. Una strategia ampiamente criticata ma con poche – se non minime – possibilità di rettifica. Il motivo è semplice. Oltre ad essere l’unico mezzo di cui la Cina dispone per combattere il virus, la legittimità e la credibilità di Xi Jinping si trovano ad essere intrinsecamente legate al successo di tale politica. Il fatto che Xi si sia circondato da un entourage di fedelissimi, virando sempre di più verso una forma di autoritarismo one man rule, rende ancora più improbabile un cambio di rotta, alimentando un sentimento diffuso di scetticismo e delusione. Fare marcia indietro implicherebbe un’ammissione di colpa che sancirebbe il decesso politico di colui che desiderava rendere la Cina “di nuovo forte”.
Qualcosa si è rotto
Fintantoché il regime si è dimostrato fedele alla promessa di migliorare gli standard di vita, per milioni di cinesi il boccone della censura e della sorveglianza non è sembrato così amaro da digerire. A livello locale, le proteste contro le draconiane misure anti-Covid si sono dunque amalgamate alle rimostranze già esistenti. Anche ciò che sta accadendo alla Foxconn di Zhengzhou, il principale centro produttivo e di assemblaggio di iPhone al mondo, non lascia spazio a fraintendimenti: il patto sociale si è infranto. Ad oggi sono più di 25 le città in cui divampano le proteste, comprese Shanghai, Pechino, Wuhan, Canton, Tientsin. Consapevoli che qualsiasi contenuto verrà comunque inghiottito dal Great Firewall, i cittadini manifestano il proprio malcontento innalzando dei fogli bianchi. La “rivoluzione degli A4”, una protesta tanto afona quanto assordante.
Dopo l’iniziale “ritorno alla normalità” di Pechino, contrapposto ad un Occidente ancora sopraffatto dalla portata del virus, l’impotenza della campagna vaccinale targata Sinovac e Sinopharm di fronte alle varianti e l’attuazione sistematica di misure restrittive hanno ribaltato la situazione. La parvente superiorità del modus operandi cinese non solo è svanita, ma si è trasformata in un boomerang politico. Di conseguenza, il trade-off tra sorveglianza e sicurezza non appare più come un compromesso accettabile per larga parte della popolazione.
Tienanmen 2.0?
“Datemi la libertà o datemi la morte”, un’eco che sembra giungere direttamente dal giugno 1989. Negli ultimi giorni non si è potuto evitare un richiamo ai fatti di Tienanmen. Come allora, si è parlato di presunti “agenti di forze straniere” che avrebbero ispirato le proteste. Una tesi da accantonare, anche perché i manifestanti intonano l’internazionale socialista, sventolano immagini di Mao, criticano il PCC per non aver tenuto fede all’imperativo fondamentale: servire il popolo.
Diversamente dal 1989, quando il Partito si presentava diviso tra chi si mostrava conciliante e aperto al dialogo con i manifestanti, e chi aveva abbracciato sin da subito una linea più dura e intransigente, il monopolio di Xi e dei suoi non sembra lasciare spazio a potenziali divergenze. Ma è altrettanto vero che la nomina dei membri del nuovo Politburo ha scontentato numerosi funzionari intermedi. Non è da escludere che dall’abbandono del criterio meritocratico e dall’assottigliamento delle possibilità di avanzamento possa scaturire un risentimento tale da spezzare la compattezza interna all’apparato statale. Rimane tuttavia complesso e soprattutto prematuro fare simili previsioni.
Xi Jinping al bivio
Se finora il patto sociale ha permesso al PCC di preservare il proprio equilibrio autoritario, oggi i dati del post-pandemia sottolineano una tragica realtà: la Cina ha smesso di essere il Paese della rampante e miracolosa crescita economica a doppia cifra. Le stime di avanzamento del PIL dicono molto delle difficoltà che la RPC sta affrontando e gli effetti delle proteste stanno già avendo evidenti ricadute sui mercati finanziari. Se la “fabbrica del mondo” smettesse di crescere, i problemi non si limiterebbero alla sfera locale, ma metterebbero a dura prova l’intera economia globale.
Prende forma quello che molti hanno definito “il dilemma di Xi Jinping”. Le strade possibili sono due: correggere o portare avanti la politica Zero Covid. Da un lato, allentare le restrizioni significherebbe fare i conti con una nuova ondata di contagi e decessi. Il sistema sanitario cinese non è pronto a fronteggiare uno scenario così catastrofico, reso ancora più plausibile dalla difficoltà a garantire una copertura vaccinale adeguata a più del 30% della popolazione over 60. Viceversa, proseguire su questa linea non farebbe che esacerbare il malcontento generale, accrescendo le probabilità di mettere in moto la macchina repressiva.
Che questo fantomatico bivio, in realtà, non sia altro che un vicolo cieco?
Photo credits: CBC, ISPI.