di Serena Danaro

Sin dai tempi della dinastia Han, in Cina l’abilità di gestire le acque per garantire l’irrigazione e difendersi dalle inondazioni è stata barometro di legittimità politica. Ancora nel 1954, la tragica inondazione dello Yangtze condusse Mao a riflettere sulla necessità di riaffermare l’autorità del PCC. Ebbe così inizio quello che fu presentato dalla propaganda come uno scontro tra la natura e la leadership in ascesa: lo Yangtze assunse le sembianze di un vigoroso drago indomito che andava addomesticato. Controllare l’acqua avrebbe significato controllare il cibo, il commercio, l’energia, il trasporto. Imponenti mura e opere ingegneristiche su larga scala divennero un pretesto per celebrare la potenza incontrastabile della Cina. La costruzione della Diga delle Tre Gole, ultimata nel 2003 e fonte di orgoglio nazionale, sembrò sancire il dominio definitivo sul drago Azzurro.

Definire il problema: distribuzione inefficiente e sovrasfruttamento

L’impetuoso sviluppo economico sperimentato dal Paese a partire dagli anni ’80, gli elevati tassi di industrializzazione e urbanizzazione e l’accesso ad uno stile di vita moderno da parte dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese hanno determinato un notevole incremento del dispendio idrico regionale, rendendo manifeste numerose criticità legate alla disponibilità di oro blu.  L’aggravarsi della crisi climatica, inoltre, ha concorso al ritiro dei ghiacciai himalayani, storica riserva d’acqua dolce dei fiumi cinesi, primi tra tutti lo Yangtze e il fiume Giallo. La scarsità d’acqua risulta infatti particolarmente accentuata nella regione settentrionale corrispondente al bacino del Giallo, popolata da milioni di persone e cuore dello sviluppo economico nazionale.

Benché ospiti solamente il 20% delle risorse idriche del Paese, nel Nord sono collocate province densamente popolate, come lo Shandong e le aree metropolitane di Pechino e Tientsin. Si potrebbe supporre, data questa evidente disparità, che le attività agricole e industriali si concentrino principalmente a Sud. Eppure, non è così. Più del 60% delle terre coltivabili si trova nelle regioni del Nord, dove si concentra anche la maggior parte delle attività di estrazione mineraria, processi notoriamente water intensive che, oltre ad esigere un impiego massiccio di risorse idriche, inquinano in maniera significativa le falde acquifere, aggravando un quadro già di per sé preoccupante con ulteriori minacce alla sicurezza sanitaria e ambientale. L’attività di sovraestrazione dalle falde, infine, non permette di immagazzinare riserve per affrontare periodi di siccità e, aspetto da non sottovalutare, contribuisce ad incancrenire il fenomeno della subsidenza, colpevole di far sprofondare nel terreno per diversi centimetri ogni anno molte aree urbane.

Il risultato è che, già da oggi, il Nord della Cina si trova costretto ad affrontare crescenti problemi di stress idrico e relative carenze di approvvigionamento in svariati ambiti quali i settori minerario, industriale, agricolo e dei consumi privati. Questo disagio, destinato a peggiorare, è già da considerarsi patologico nelle aree rurali dove non sempre è garantita la presenza di acqua corrente.

Quali sono le soluzioni adottate finora dal Governo centrale?

Da anni il Partito ha cercato di intervenire sullo squilibrio di risorse tramite la realizzazione di enormi e dispendiosi progetti ingegneristici. Ne è espressione il programma South-North Water Diversion (SNWD), un piano pluridecennale che prevede la creazione di tre rotte di diversione per il trasferimento idrico dal Sud a Nord del Paese. Si tratta di un progetto estremamente controverso per svariate ragioni. L’ingerenza transfrontaliera, innanzitutto, acuisce le tensioni con i paesi confinanti, ma non bisogna dimenticare le difficoltà legate al reinsediamento della popolazione locale (si pensi al trasferimento forzato di milioni di cittadini avvenuto in seguito alla costruzione della diga delle Tre Gole) e la minaccia sistemica alla biodiversità. Non solo: l’efficacia dei progetti di diversione idrica è continuamente messa in discussione poiché – oltre a mutare l’idrologia naturale del territorio e ad influenzarne il microclima – si è finora dimostrata insufficiente a soddisfare esaustivamente i bisogni del settentrione.  Come alternativa, la via della desalinizzazione fa gola a molti policy makers, così come le nuove iniziative di ripristino delle falde sotterranee tramite reimmissione di riserve idriche. Tuttavia, al momento, l’energia impiegata per tali attività ha origine quasi completamente dal carbone ed è dunque altamente inquinante.

Come muoversi? Uno sguardo al futuro.

Sul piano delle riforme e della pianificazione economica, Pechino potrebbe indirizzare le proprie politiche verso l’ottimizzazione dei processi di produzione nel Nord della regione, aumentando l’import di beni agricoli come carne e riso, ma anche di manufatti, ridimensionando – ad esempio – l’impatto dell’industria del fast-fashion, basata su catene di approvvigionamento che fanno abuso di risorse idriche. Chiaramente, una scelta di questo stampo implicherebbe una correzione delle abitudini dei cittadini mediante un intervento sul loro stile di vita, nonché un aumento della dipendenza del Paese dalle importazioni estere, rendendolo soggetto a potenziali rischi derivanti da interruzioni delle catene di approvvigionamento. Ulteriori complicazioni affiorano quando industrie ad alto dispendio energetico vengono delocalizzate in aree soggette al medesimo sintomo di insufficienza idrica.

L’alternativa più vantaggiosa potrebbe allora risiedere in una migliore gestione della domanda.  L’acqua, in Cina, costa pochissimo e questo ha da sempre incentivato il sovra-sfruttamento. Aumentare i prezzi, perfezionando nel contempo le strutture di conservazione e di riciclaggio, significherebbe incoraggiare un uso più sostenibile e diminuire gli sprechi, ma anche essere pronti a compiere scelte impopolari. Un simile intervento, volto ad una gestione più efficiente delle risorse, comporterebbe in cambio aumenti di prezzo che potrebbero mettere alla prova la stabilità del “patto sociale” che intercorre tra Partito e cittadini – ad esempio gli agricoltori, che potrebbero non essere in grado di tollerare i rincari.

Conclusione

Le problematiche che affliggono la Cina a livello idrico possono essere così riassunte: non c’è abbastanza acqua e spesso, oltre ad essere mal distribuita, è così sporca che nessuno può usarla. La crescita della popolazione e l’intensificazione dell’industria, l’agricoltura e l’urbanizzazione hanno posto richieste impossibili alle risorse idriche e allo stesso tempo hanno contribuito al loro degrado. Con il quattordicesimo piano quinquennale (2021-2025) si è dato avvio a 150 nuovi progetti infrastrutturali che, sommati a quelli del 2014, prevedono lo stanziamento di oltre 2,99 trilioni di yuan (l’equivalente di circa 470 miliardi di dollari). Si tratta di un programma complesso, il cui obiettivo fondamentale consiste nel completare la rete idrica nazionale e mitigare la recrudescenza di fenomeni associati a inondazioni, siccità, e cattiva gestione degli impianti di irrigazione.

Un piano di queste proporzioni, incarnazione della tradizionale megalomania del PCC, non rappresenta tuttavia una soluzione di lungo periodo al problema. Spacciate come panacea alla crisi idrica, le grandi opere infrastrutturali rischiano così di trascinare il Paese alla deriva. O peggio, nelle fauci della siccità.

Foto: Indo-Pacific defense forum

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