di Marco Milo Lavina
Il conflitto tra Ucraina e Russia sta velocemente abbandonando ogni dimensione regionale con le cancellerie delle principali potenze mondiali impegnate a gestire il ritorno della guerra nel Vecchio Continente.
Il coinvolgimento dei governi occidentali è stato istantaneo, con gli sforzi diplomatici ucraini indirizzati ai Paesi membri dell’Unione Europea e agli Alleati transatlantici, ma le risposte non all’altezza delle aspettative di Zelensky hanno spinto il governo di Kiev a cercare il sostegno anche di partner meno storici.
In questo senso si può leggere il colloquio telefonico avvenuto il 1° Marzo tra il Ministro degli Esteri Ucraino Dmytro Kuleba e il suo omologo cinese Wang Yi al fine di convincere Pechino ad intercedere per negoziare un cessate il fuoco. Il coinvolgimento della Cina nel conflitto però potrebbe essere più profondo nei prossimi giorni: in virtù del suo status di unica grande potenza ad avere legami cordiali con Mosca, Pechino è candidata, agli occhi di molti, a svolgere il ruolo di conflict mediator nel conflitto.
C’è chi però avanza perplessità davanti a questa prospettiva per la scarsa esperienza di Pechino nello svolgere un ruolo tanto delicato quanto cruciale. Quando si parla della diplomazia cinese, infatti, si fa riferimento ad alcuni principi cardine della sua politica estera che mal si coniugherebbero a questo ruolo; tuttavia non deve sfuggire come la nuova Cina di Xi abbia da tempo iniziato un processo di crescita consapevole capace di coniugare tali principi ad un ruolo più attivo nella diplomazia internazionale.
Fin dalla sua fondazione, la Cina ha preferito astenersi da iniziative di mediazione internazionali o regionali basando la sua condotta sul Principio di Non Interferenza, uno dei Cinque Principi della Coesistenza Pacifica che ha di fatto determinato un atteggiamento quasi isolazionista del Paese.
Su questo principio si fonda tutta la politica estera cinese dagli anni 60 del secolo scorso agli anni 2000 e in particolare la Presidenza di Deng Xiaoping, promotore della Politica del Basso Profilo. Secondo tale ideologia la Cina ha a lungo considerato l’esposizione diplomatica come un possibile vulnus capace di minare il suo processo di crescita e sviluppo della prosperità; in questo senso i decisori cinesi hanno preferito non prendere posizione a meno che ci fossero questioni capaci di ledere i suoi interessi fondamentali.
L’analisi empirica del numero di mediazioni di conflitti internazionali conferma questa tendenza: nei primi anni 2000 il Paese era coinvolto solo nei casi del Nepal, Corea del Nord e il conflitto israelo-palestinese. Seguendo la linea cronologica, si può individuare un primo incremento del coinvolgimento nel 2008 con la presenza cinese a otto tavoli negoziali. Tuttavia, gli analisti del MERICS spiegano come questo fenomeno sia un caso a sé stante, riconducibile alla volontà cinese di costruirsi una reputazione positiva in vista dell’edizione dei Giochi Olimpici Estivi.
La vera svolta della diplomazia cinese e l’incremento sistematico del coinvolgimento di Pechino nei contesti di mediazione si registra, come spesso accade parlando della Cina moderna, con l’ascesa di Xi Jinping. Il processo in realtà era già partito da alcuni anni come diretta conseguenza dell’aumento del potere e dell’influenza economica cinese, soprattutto a livello regionale con lo sviluppo della cosiddetta Peripheral Diplomacy, ma è con le politiche di Xi che si assiste al definitivo turning point (che la diplomazia cinese si mette definitivamente alle spalle il periodo del Basso Profilo).
In particolare, nei progetti di Xi, lo sviluppo della Belt and Road Initiative passa anche per una diplomazia più proattiva col compito di stabilizzare tramite la mediazione le tensioni e i conflitti delle aree toccate dal progetto. Un esempio è la maggior presenza cinese in Medio Oriente, regione di vitale importanza per l’approvvigionamento energetico del Paese, in teatri come quello siriano, iraniano, afghano e qatariota. Tuttavia, le alte aspettativa dei Paesi locali, che vedevano in Pechino un mediatore neutrale a differenza dei Paesi Occidentali “corrotti” dal background coloniale, sono state però disattese: Pechino non si è mai posta attivamente nella risoluzione dei conflitti ma ha preferito lavorare alla creazione di framework di dialogo bilaterale o multilaterale con altre grandi potenze o organizzazioni regionali (come nel caso della crisi nucleare iraniana o la guerra civile in Siria). In altre parole la Cina non ha avviato alcuna nuova fase per la risoluzione dei conflitti ma ha replicato strategie esistenti e favorendo strumenti ad alta visibilità istituzionale.
In Africa si è analizzato un atteggiamento simile nonostante il coinvolgimento cinese abbia radici più solide, come testimoniato dalla nomina nel 2007 di un rappresentante speciale per raggiungere una soluzione politica alla guerra in Darfur. In questo caso Pechino è stata impegnata in diversi scenari come, tra gli altri, i negoziati della guerra in Sud Sudan, le tensioni tra Eritrea e Gibuti e la crisi sociale dopo il colpo di Stato in Zimbabwe. Tuttavia anche in questo caso l’aspettativa di mediazione si è scontrata con la volontà cinese di intervenire al solo fine di mantenere un’atmosfera stabile per la sua crescita globale senza esercitare forti pressioni.
In generale quindi possiamo constatare come l’esperienza di mediazione raccolta fin qui dalla diplomazia cinese si sia limitata alla gestione dei conflitti e alla conservazione della stabilità piuttosto che concentrarsi sulla risoluzione dei conflitti a lungo termine. Inoltre, anche lo stile adottato lascia dubbi: la Guida delle Nazioni Unite su una mediazione efficace suggerisce come questo processo per essere proficuo debba tenere in considerazione le peculiarità del conflitto garantendo il consenso, l’imparzialità, l’inclusività e la titolarità nazionale; tuttavia, l’analisi dell’approccio cinese non presenta peculiarità differenti da caso a caso, rivelando quindi un approccio in gran parte simile per tutti i conflitti che ha mediato. Allo stesso tempo, poi, si deve segnalare come l’attività di mediazione sia sempre stata finalizzata al perseguimento di obiettivi nazionali e mai al fine di proporsi nel panorama internazionale come potenza in grado di offrire le proprie risorse diplomatiche al conseguimento della pace mondiale.
Tutte queste ragioni alimentano lo scetticismo davanti ad una mediazione a guida cinese nel conflitto russo-ucraino. Negli ultimi giorni le dichiarazioni di Wang Yi hanno mostrato una Cina “pronta ad avere un ruolo di mediazione” e “a fare ogni sforzo per porre fine alla guerra sul suolo ucraino attraverso la diplomazia, anche come membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.
In molti hanno visto questa apertura come troppo timida, segnale che Pechino riconosce come questo ruolo presenti numerose insidie sia economiche, con il pericolo di perdere partner strategici, che politiche, poiché in caso di fallimento la sua figura di potenza responsabile ne uscirebbe indebolita.
Quello che è chiaro, però, è che se Pechino davvero vuole recitare questo ruolo, stavolta dovrà giocarlo fino in fondo, superando i vincoli storici della sua diplomazia e proponendosi come un vero leader internazionale.