di Pietro Cattaneo

Il 16 dicembre scorso gli Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione 76/166 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella quale si afferma l’importanza del cibo come diritto umano e della necessità di combattere la fame, specialmente nelle aree rurali in maggiore difficoltà.

Una simile presa di posizione di Washington ha causato una discreta risonanza mediatica, veicolata soprattutto dai social e alimentata anche dal fatto che tutti gli altri Stati membri, con l’eccezione di Israele, hanno approvato la risoluzione.

La rappresentanza statunitense presso le Nazioni Unite ha ritenuto necessario spiegare con una dichiarazione le ragioni di una tale scelta: in particolare, si è fatto notare che il concetto di sovranità alimentare invocato all’interno della risoluzione potrebbe giustificare i Paesi ad applicare misure protezionistiche nei confronti dei beni necessari al sostentamento. Ciò potrebbe avere un impatto negativo sulla sicurezza alimentare, sulla sostenibilità ambientale e sulla crescita.

A questa motivazione di carattere economico se ne aggiunge un’altra di carattere giuridico: ci si riferisce, infatti, alla mancanza di una definizione precisa del diritto al cibo nel contesto del diritto internazionale.

Tutto ciò, in realtà, non è affatto sorprendente. È noto, infatti, che le scelte statunitensi relative ai diritti umani compiute in sede ONU differiscono spesso e volentieri rispetto a quelle delle altre nazioni, anche di quelle che Washington può considerare come storicamente alleate e con cui ha collaborato nella costruzione dell’attuale framework giuridico internazionale in materia.

A tal proposito nulla è più esplicativo del considerare come hanno agito gli USA in merito alle nove principali Convenzioni internazionali relative ai diritti umani.

Una veloce ricerca permette di scoprire che gli States ne hanno firmate sette, ma ne hanno ratificate solamente tre. Di conseguenza, Washington non considera vincolante la gran parte di questo corpus legale, esentandosi di fatto dall’applicazione delle norme in esso contenute.

Tutto ciò è particolarmente significativo se si pensa che le maggiori democrazie europee, tradizionalmente molto vicine agli Stati Uniti su un piano politico e ideologico, hanno ratificato non meno di sette Convenzioni.

A scanso di equivoci, è bene chiarire che la mancata ratifica delle Convenzioni non espone di per sé la popolazione statunitense alla violazione sistematica di alcuni diritti umani, comunque protetti da ampie garanzie giuridiche e politiche: Koh sintetizza molto efficacemente questo fenomeno con l’espressione compliance without ratification.

Il problema può sorgere, tuttavia, nel momento in cui non sono previsti strumenti o norme interne a cui si possa fare riferimento per combattere efficacemente ed adeguatamente una eventuale violazione. In una situazione simile, infatti, i Paesi che hanno ratificato si trovano naturalmente avvantaggiati, poiché in grado di attingere alle fonti del diritto internazionale.

Questo atteggiamento – definito da Michael Ignatieff esenzionalismo – non si limita alla mancata ratifica dei trattati, ma include anche la formulazione di numerose riserve ad alcuni articoli dei patti a cui vi è stata piena adesione, o il voto contrario a risoluzioni appoggiate dalla stragrande maggioranza dei Paesi membri delle Nazioni Unite, come accaduto poche settimane fa. Un celebre esempio è riscontrabile all’articolo 6, comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici: in merito ad esso gli Stati Uniti si riservarono il diritto di condannare anche i soggetti minori di 18 anni alla pena capitale. Ben 11 Paesi europei obiettarono alla riserva, ritenendola contraria all’oggetto e allo scopo del Patto.

Cosa può spiegare un simile approccio alla questione da parte statunitense?

Il fattore principale da considerare è relativo alla peculiare cultura politica presente oltreoceano, che talvolta presenta delle divergenze con alcuni elementi della prassi del diritto internazionale umanitario. Si pensi a questo proposito alla previsione – contenuta nel Patto internazionale sui diritti civili e politici o nella CEDU – di una sospensione temporanea di alcune libertà individuali in nome dell’ordine pubblico: una simile norma è semplicemente inconcepibile per una tradizione come quella degli Stati Uniti, la cui attenzione è particolarmente focalizzata sulla libertà e sulla responsabilità del singolo.

A ciò si unisce la retorica eccezionalista che caratterizza sin dagli albori la storia statunitense e che negli ultimi 75 anni si è legata a doppio filo ai diritti umani, considerati il mezzo privilegiato attraverso il quale intraprendere una missione globale di leadership morale.

Una tale visione messianica e universalista implica che i diritti da esportare – e quindi da difendere e da accettare come tali – siano solamente quelli elaborati nel seno della propria tradizione politica, culturale e giuridica: come sintetizza Ignatieff, si tratta di “American values writ large, the export version of its own Bill of Rights”.

Date queste premesse e spostando il focus su un piano giuridico, è facile intuire che, poiché “solo la legge nazionale, prodotta dalle istituzioni statunitensi, è legittima in quanto autentica espressione della sovranità nazionale” (Kahn, 2003), risulta alquanto difficile per gli Stati Uniti permettere che una norma elaborata in un contesto multilaterale – come le Nazioni Unite – possa entrare a far parte del proprio ordinamento.

È questo, quindi, il motore dell’esenzionalismo di Washington: una lettura superficiale, infatti, lo potrebbe derubricare al tentativo di uno Stato particolarmente potente di creare un sistema di leggi valido per tutti tranne che per se stesso.

Non si tratta, però, di un progetto meramente legato all’interesse nazionale, per quanto quest’ultimo abbia guidato molte azioni politiche e strategiche degli Stati Uniti negli ultimi decenni: le sue radici sono ben più profonde nel tempo e hanno carattere ideologico e culturale.

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