Written By Redazione

Di Mattia Sosio

La massima aspirazione per uno sportivo ha le fattezze di cinque cerchi colorati e sovrapposti. Non è una competizione qualunque, ma un evento eccezionale che evoca sentimenti più alti, antichi, che bruciano e illuminano con lo stesso fervore della torcia olimpica. Nell’aria aleggia un senso di compartecipazione totalizzante che smussa le differenze ed include tutti i partecipanti, rendendo la celebrazione dell’evento stesso importante tanto quanto la conquista di una medaglia e della gloria che l’accompagna. Le Olimpiadi sono questo e molto altro, incarnano uno spirito che – almeno idealmente – dovrebbe essere apolitico. Ovviamente questo non succede quasi mai, e i Giochi Olimpici diventano spesso e volentieri i palcoscenici più adatti per riti di autocelebrazione, delicatissime missioni di riappacificamento e mirate azioni criminali. Nella sottigliezza dei dettagli si smascherano tensioni latenti e amicizie traballanti, rendendo la diplomazia una disciplina altrettanto protagonista dei Giochi. La ricerca del consenso e l’esercizio del soft power creano così una competizione parallela all’ultimo respiro, degna dello stesso seguito rivolto alle più tradizionali gesta atletiche.

Dal 4 febbraio gran parte dell’attenzione mediatica è rivolta verso Pechino, città organizzatrice della ventiquattresima edizione dei Giochi Olimpici invernali. La Repubblica Popolare giunge a questo appuntamento in una condizione diversa rispetto al 2008, l’anno in cui Pechino ospitò le sue prime Olimpiadi. L’obiettivo del tempo era imporsi come possibile attore globale, dopo le riforme denghiste il partito mirava alla consacrazione internazionale senza però dover rinunciare alle caratteristiche così peculiari del sistema cinese. L’idea era quella di aggiungere elementi cinesi (中国元素) nella proiezione all’infuori dei propri confini. Dopo l’impennata economica Pechino voleva insomma rendersi protagonista e agguantare un posto al tavolo dei grandi: un traguardo degno di essere celebrato in grande stile con una cerimonia d’apertura memorabile, abilmente orchestrata dal regista pluripremiato Zhang Yimou.

Tante cose sono cambiate da quell’estate di quattordici anni fa. La posizione della Repubblica Popolare nello scacchiere globale è indubbiamente tra queste. Pechino non ha solamente conquistato il tanto agognato posto al tavolo, ma si è decisamente imposta come un interlocutore alternativo all’Occidente e ormai irrinunciabile. Il vertice tra Xi Jinping e Vladimir Putin alla vigilia dei Giochi dice molto della posizione guadagnata dalla Cina. Il messaggio che trapela dal comunicato congiunto è quello di volere imporsi come un’alternativa al modello occidentale: entrambi i leader si sono detti contrari all’allargamento della Nato e così facendo hanno segnato un prima e un dopo nel mutuo rapporto fra i due paesi. Russia e Cina hanno formato di fatto un fronte che appare sempre più compatto, e per la leadership di Pechino avere il sostegno del Cremlino è importantissimo per alimentare la narrazione di Xi. Non meno importante è stata la firma del contratto sulla fornitura di gas dalla Russia alla Cina: ciò rende – se possibile – ancora più tesi i legami di Mosca con l’UE e fa tirare a Xi Jinping un sospiro di sollievo considerando l’imperversare della crisi energetica.

Degno di nota è stato anche l’incontro fra Xi e il presidente argentino Alberto Fernández. I due leader hanno celebrato il cinquantesimo anniversario dell’alleanza diplomatica fra Repubblica Popolare e Argentina, nell’ottica di continuare a rinforzare la fiducia reciproca e la cooperazione fra le due parti. In questo senso è rilevante la firma del memorandum d’intesa relativo alla BRI (Belt and Road initiative): un accordo bilaterale che prevede – in un’ottica prevalentemente commerciale – l’implementazione di infrastrutture per un collegamento più agevole fra la Repubblica Popolare e i firmatari.

Al di là delle alleanze consolidate le Olimpiadi sono un banco di prova importante anche per la strategia zero-covid che Pechino continua a promuovere, la quale al minimo incremento dei contagi blinda entro le mura di casa gli abitanti di metropoli ormai stremate (il caso più recente ed eclatante è sicuramente quello di Xi’an). Anche questo è un aspetto fondamentale, l’immagine che il Partito proietta all’esterno e quindi la tenuta della sua credibilità passa anche da qui. Nonostante la tenacia del Pcc, comunque, pare che il mantenimento di simili misure a lungo termine non sia sostenibile.

Si è detto molto del boicottaggio delle delegazioni straniere – USA in primis – alle celebrazioni dell’inizio dei Giochi. Il boicottaggio è formalmente motivato dalla “sistematica violazione dei diritti umani sul territorio cinese e in particolare nella provincia dello Xinjiang”, e visti i protagonisti in campo ricorda molto quello delle Olimpiadi di Mosca del 1980. Anche in questo caso fu a trazione statunitense, ma motivato dall’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Pechino ha deciso di rispondere alle accuse coi fatti, incaricando un’atleta uigura della solenne accensione della fiamma olimpica. Ecco come le più tradizionali celebrazioni possono essere usate per veicolare messaggi ben precisi.

Parlando di gesti rituali trasformati in dichiarazioni politiche – e rimanendo sullo svolgimento della cerimonia d’apertura – occorre parlare anche di Taiwan. I quattro atleti che rappresentano l’isola in questa edizione dei Giochi inizialmente non avrebbero dovuto nemmeno sfilare, per ragioni ufficialmente legate alla pandemia e ad un ritardo nella programmazione dei voli. Su insistenza del CIO gli atleti taiwanesi hanno comunque sfilato, ma mentre il cartello che li presentava recava il nome di 中华台北 (Taipei cinese), durante la diretta della CCTV – la tv di stato cinese – la delegazione è stata presentata come 中国台北 (Cina, Taipei). Una differenza che sembra irrisoria ma che esprime tutta l’assertività della Repubblica Popolare sulla questione: ne ha parlato Lorenzo Lamperti su China Files.

Pechino 2022 non è ovviamente il primo caso nel quale le Olimpiadi diventano un mezzo per un secondo fine. I Giochi di PyeongChang nel 2018 furono abilmente indirizzati dal presidente Moon Jae-in per aprire il dialogo con la Corea del Nord, creando una sorta di edizione olimpica “del disgelo”. Un’operazione non facile considerando la pesante eredità dei Giochi di Seul del 1988. La leadership nordcoreana aveva tentato in ogni modo di sabotare l’organizzazione dei Giochi nella parte capitalista e filostatunitense della penisola, arrivando a far esplodere un aereo della Korean Air decollato da Baghdad e diretto a Seul [1]. La strategia del presidente Moon per invertire la rotta la dice lunga sull’importanza delle Olimpiadi in ambito diplomatico.

L’incontro fra Olimpiadi, politica e propaganda è una serie con innumerevoli puntate. Si può pensare ai Giochi di Berlino del 1936, usati dai nazisti come vetrina per l’ideologia antisemita. Oppure a Monaco 1972, quando un movimento affiliato all’OLP di Arafat chiamato “settembre nero” uccise due atleti israeliani e ne sequestrò altri nove. Anche questa edizione dei Giochi sembra insomma confermare la tendenza delle precedenti, nelle quali un palcoscenico di così grande prestigio viene spesso e volentieri politicizzato per perseguire altri scopi. Scopi che con lo sport non hanno nulla a che vedere.

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