di Giulia Olini

Se si dovesse creare una carta di identità alla Repubblica Democratica del Congo, allora bisognerebbe certamente menzionare il fatto che con circa 90 milioni di abitanti e oltre 2,3 milioni di chilometri quadrati, risulta essere il secondo paese africano per estensione e il primo per risorse minerarie sul proprio territorio. La sua posizione geografica inoltre lo rende uno dei luoghi più fertili e ricchi di vegetazione di tutto il continente nonché uno con l’agricoltura più sviluppata. Proprio la contingenza di tutti questi fattori è stata la sua fortuna tanto quanto la sua maledizione. Per comprendere le principali problematiche che caratterizzano il Congo di oggi, risulta necessario guardare al suo contesto storico e in particolare alle guerre che hanno caratterizzato gli ultimi sessant’anni.

Da sempre nelle mire espansionistiche europee, dopo il dominio del Belgio iniziato dalla fine dell’Ottocento venne per decenni sfruttato e depredato delle sue ricchezze e in particolare di diamanti, avorio e risorse naturali. Nel giugno del 1960, con il timore di dover far fronte a violente proteste come era successo in altri paesi africani, il Belgio concesse la totale indipendenza al Congo: il già popolare leader indipendentista Patrice Émery Lumumba, proclamato Primo Ministro, si trovò a dover gestire un paese in balia di violente lotte intestine e di un complesso sistema internazionale impegnato nella Guerra Fredda tra USA e URSS. Nel 1961 Lumumba venne fatto giustiziare dal colonnello Mobutu che fino al 1997, anno che segnò la fine della Prima Guerra del Congo, instaurò un regime totalitario che fece della lotta al dissenso politico e popolare i suoi tratti distintivi. Tra il 1997 e il 1998 vi fu un periodo di apparente pace: in realtà, nonostante alla presidenza vi fosse il generale Kabila, il controllo dei territori era mantenuto da numerose milizie che mediante una sorta di pax mafiosa si accordarono per la spartizione dello stato. Dal 1998 al 2003 si sviluppò una nuova guerra soprannominata “Guerra Mondiale Africana” in quanto coinvolse sei stati africani e aveva come obiettivo principale la conquista dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e coltan del Congo orientale. Dopo una missione di pace dell’ONU e le prime libere elezioni dopo 45 anni, nel 2006 venne eletto presidente Joseph Kabila, figlio del generale. Il conflitto causò oltre due milioni e mezzo di vittime e profonde fratture politiche e sociali che influiscono in maniera importante anche sull’attuale instabilità del paese.

Nell’Africa Subsahariana e in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, con l’acuirsi delle tensioni sul piano politico e militare, si è sviluppato parallelamente un rapporto molto stretto tra movimenti di guerriglia e criminalità organizzata. Dalla fine della colonizzazione si è registrata infatti un’incredibile ascesa delle milizie criminali che sono riuscite grazie ai periodi di conflitto e all’ingerenza straniera, a sviluppare una fitta rete di collegamenti transnazionali soprattutto nel traffico di armi e di controllo delle risorse naturali. A capo delle milizie attive nelle regioni orientali del Congo vi sono i signori della guerra, vere e proprie figure chiave che controllano tutti i traffici illeciti presenti nel paese. Durante la Seconda Guerra del Congo (1998-2003) accanto a otto eserciti nazionali vi fu la partecipazione attiva di ventuno milizie: come avviene nella maggior parte dei casi, le numerose guerre che hanno interessato il paese hanno assunto il ruolo di catalizzatore per l’espansione e il radicamento della criminalità. Passando da una prima fase caratterizzata da un combattimento con armi rudimentali come i machete, dalla fine del secolo scorso i miliziani hanno iniziato a dotarsi di armi da fuoco come i kalashnikov e i fucili da caccia. Questo ha permesso loro di trasformarsi in veri e propri gruppi terroristici impegnati nel controllo di quei territori dove la presenza dello stato risulta essere più esigua. Ad accorciare le distanze tra criminali e armi sono ancora una volta i vuoti normativi: la maggior parte dei paesi africani, tra cui la Repubblica Democratica del Congo, non dispongono infatti di una regolamentazione o di un processo di consegna di porto d’armi. Il reperimento è stato agevolato dalle dinamiche che si sono sviluppate proprio negli ultimi decenni: a partire dalla Guerra Fredda, con l’aumento dell’interesse statunitense per il Corno d’Africa in ottica anti-sovietica, le armi hanno iniziato a divenire materiale di scambio per l’accesso a relazioni privilegiate con i gatekeeper states, ovvero quei territori ricchi di risorse naturali e quindi dotati di importanza strategica. Le caratteristiche interne agli stati africani insieme agli interessi stranieri hanno permesso la diffusione delle armi durante i conflitti, stimolando la nascita di un vero e proprio mercato regionale. In quest’ottica risulta fondamentale analizzare l’altro fattore determinante: le risorse naturali. Come già accennato poco fa, la maggior parte delle armi in circolazione nella Repubblica Democratica del Congo deve la propria origine a rapporti transnazionali: se si guarda ai dati si scopre infatti che il 95% delle armi da fuoco viene prodotta in paesi extra africani e che i primi due esportatori verso l’Africa sono la Cina e l’Ucraina. La logica è la stessa da decenni: in cambio di munizioni e contingenti, alle multinazionali dei “paesi ricchi” viene assicurato l’accesso ai territori in cui i materiali preziosi per le nuove tecnologie abbondano e il processo di estrazione degli stessi. L’esempio per eccellenza è in questo caso la regione del Nord Kivu, dove è concentrata buona parte del coltan congolese. Da anni la columbo-tantalite è alla base dello sviluppo delle nuove tecnologie: se da un lato la sua estrazione illecita finanzia le milizie criminali, da un altro ha portato ad un vero e proprio circolo vizioso che permea il tessuto economico e sociale dell’intero Paese. Secondo gli esperti la pandemia ha aumentato e incentivato il contrabbando e il traffico illegale delle risorse. I rischi sono molteplici e non sono solo confinati al Congo in quanto indirettamente siamo tutti parte attiva nelle violente dinamiche che determinano lo sfruttamento dei criminali delle popolazioni africane e spesso anche di molti bambini: i blood minerals, così come sono stati recentemente definiti, partendo dai ricchi territori congolesi, finiscono infatti nelle fabbriche cinesi dove tutta la tecnologia che usiamo quotidianamente viene prodotta.

Sebbene la strada sia ancora molto lunga pare che, in quanto a normative, vi sia un leggero miglioramento grazie alle campagne di mobilitazione e sensibilizzazione a livello globale; certo risulta del tutto imperativa la ricerca di un nuovo modello di sviluppo o per lo meno di una presa di coscienza collettiva.

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