di Mattia Sosio

Il 2022 è iniziato col botto nell’ex Repubblica sovietica del Kazakistan. Dai primi giorni di gennaio – nei quali si è riscontrato un aumento del prezzo del GPL conseguente all’imperversare della crisi energetica- infuriano nel Paese delle proteste soltanto apparentemente causate dal risentimento nei confronti del rincaro economico. Quest’ultimo è stato semmai una buona occasione per portare alla luce antiche questioni mai risolte e per dare voce a frustrazioni decennali. Che con il GPL hanno tutto e nulla a che fare.

Buona parte di tale risentimento è legata ad un personaggio, colui che dall’indipendenza del Kazakistan del 1991 ne è stato l’uomo forte per quasi un trentennio. Il suo nome è Nursultan Nazarbayev, e per i Kazaki che oggi protestano il suo volto è simbolo di un sistema autoritario e repressivo. È lui ad aver ordito le trame e le storture di un apparato statale monopartitico ad oggi diventato insostenibile. Dimessosi nel 2019, Nazarbayev non hai mai davvero abbandonato l’establishment, rimanendo saldo ai vertici del potere come capo del Consiglio di sicurezza. Il suo successore, il delfino Qasim Jomart Tokayev, è a detta di molti nient’altro che un suo burattino, tant’è che all’interno dei confini viene ironicamente soprannominato “il mobile”. Se c’è una cosa che il padre della nazione ha saputo trasmettere al suo erede è l’inflessibilità nei confronti del dissenso. Tokayev ha dimostrato infatti di aver imparato la lezione in maniera esemplare, quando in risposta alle proteste ha definito i rivoltosi “terroristi” sui quali sparare a freddo è quindi legittimo. Tokayev si sarebbe anche sbilanciato in dichiarazioni più o meno acrobatiche, trovando in non meglio specificate “influenze esterne” – il cui fine ultimo sarebbe un colpo di stato – una delle cause generatrici del malcontento.

Non fidandosi dei suoi compatrioti – il governo è infatti stato sciolto a seguito delle proteste e il capo della sicurezza Karim Massimov è stato arrestato – lo sguardo di Tokayev si è rivolto altrove, trovando supporto e consolazione nello Zar d’Europa Vladimir Putin. Le truppe del CSTO – un’alleanza militare a guida russa di cui fanno parte alcuni paesi ex sovietici – hanno così valicato i confini kazaki per dare man forte alla repressione. Ecco quindi che in una questione interna iniziano a partecipare più attori contemporaneamente, ognuno portatore di più o meno velati interessi. Condividendo con il Kazakistan il suo confine più esteso – quasi 8.000 chilometri – la Russia è sicuramente la parte più coinvolta. Dal punto di vista economico è il principale partner commerciale del Kazakistan e la parte settentrionale del territorio kazako è inoltre da sempre a maggioranza russofona: un dato, questo, che fa comprendere quanto la partita sia di fondamentale importanza per il Cremlino. Putin sceglie così la via consolidata dell’interventismo, perché se c’è una cosa che non è ammessa nel matrimonio fra autoritarismo e potere è proprio l’instabilità, sia essa più o meno vicina alla porta di casa.

Una linea affine è seguita anche dalla Repubblica Popolare Cinese. Il Kazakistan rappresenta per Pechino un attore altrettanto vicino, come dimostra il fatto che il progetto della Belt and Road sia stato annunciato nel 2013 proprio ad Astana (oggi Nursultan, rinominata in onore dell’ormai poco amato ex presidente). Anche Pechino storce il naso al clangore delle proteste, a maggior ragione considerando la rilevanza economica che il Kazakistan ricopre: lo Stato possiede infatti vaste risorse minerarie ed è lo snodo per circa il 10% del consumo annuale di gas naturale della Cina. Quasi la metà delle esportazioni energetiche kazake finiscono proprio nella Repubblica Popolare. A ciò si vanno ad aggiungere gli investimenti cinesi in Kazakistan e la presenza del gasdotto Cina-Asia centrale, il quale prima di terminare in Xinjiang transita sul suolo kazako. Pechino, insomma, sta a guardare – nel classico stile privo di troppo clamore diventato ormai centrale nella postura all’estero della Repubblica Popolare – sperando nel rientro delle proteste e nel mantenimento dello status quo. La solidarietà nei confronti delle misure intraprese da Tokayev è stata inoltre confermata dalle dichiarazioni del Ministro degli esteri Wang Yi. Xi Jinping in persona è intervenuto condannando fermamente le forze esterne che hanno cercato di innescare una “rivoluzione colorata” (颜色革命), richiamando le rivolte risalenti ad una ventina di anni fa contro gli autocrati post sovietici, spesso etichettate dai regimi come complotti orditi dalla Cia. Sulla stessa onda dello sguardo strategico di Mosca nulla tranquillizza l’autocrazia di Xi più dell’assenza di colpi di scena, anche se questo significa dover sparare per uccidere.

Niente di nuovo, invece, negli uffici di Bruxelles. La Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha tenuto un profilo piuttosto moderato, chiedendo la fine delle violenze e dichiarando che l’UE è pronta ad assistere dove può. L’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera, Josep Borrell, ha espresso al ministro degli Esteri kazako la disponibilità dell’Unione per sostenere la stabilità del Paese. Macron, dal canto suo, invoca ad un dialogo onesto e franco con la Russia. Anche gli Stati Uniti e le organizzazioni internazionali si accodano alle timide dichiarazioni occidentali: il portavoce del Dipartimento di Stato statunitense Ned Prince ha assicurato che gli Stati Uniti condanneranno ogni violazione dei diritti umani, nonché ogni presa delle istituzioni locali da parte della Russia.

Sullo sfondo di questo racconto torreggiano le immagini inquietanti degli edifici governativi dati alle fiamme, l’aeroporto di Almaty occupato, le statue di Nazarbayev abbattute e i corpi di due agenti decapitati dai manifestanti. Al di là degli scenari apocalittici, tuttavia, a destare ben più serie preoccupazioni è la realtà cruda e drammatica dei numeri di vittime e feriti. Le stime, come riportato da Aljazeera, si aggirano intorno ai 225 morti (di cui 19 militari) e 2600 persone le quali hanno dovuto ricorrere a cure ospedaliere. È bene ricordare, quindi, che anche sullo scacchiere internazionale nessuna azione è neutra o priva di conseguenze. È difficile, in questa partita, distinguere i vincitori dagli sconfitti. Chi ha perso sono sicuramente le vittime, o forse, ancor più, chi di quelle morti dovrà smaltirne il fardello della colpa. Una colpa molto ingombrante da dover espiare.

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