Il 28 luglio scorso, Pedro Castillo, all’anagrafe José Pedro Castillo Terrones, è stato ufficializzato come Presidente della Repubblica del Perù. Appena due mesi e mezzo dopo, l’ex leader sindacale ed insegnante di scuola rurale si trova davanti a se caos, estremismo, incompetenza ed il peso di un paese devastato dalla corruzione e dai disordini politici sulle sue spalle.
Le elezioni hanno dato alla luce un Perù fortemente frammentato, soprattutto tra le zone rurali e l’area metropolitana. Al primo turno in aprile, sui 20 candidati che si sono presentati, nessuno ha ovviamente centrato il tetto del 20% delle preferenze.
Stessa storia anche al 2° turno, il 6 giugno, tra Pedro Castillo e Keiko Fujimori, figlia del disgraziato presidente degli anni ‘90 Alberto Fujirmori. Lo scrutinio, terminato il 15 giugno, aveva dato come risultato la vittoria di Castillo, per appena 45mila voti. L’ufficialità è poi slittata al 28 luglio, causa le numerosissime denunce di frode. I risultati delle elezioni, che per inciso hanno ricevuto complimenti ed elogi dall’Organizzazione degli Stati Americani per la loro correttezza di svolgimento, hanno proclamato Pedro Castillo Presidente con 8.836.380 voti, contro gli 8.793.117 di Keiko Fujimori, al terzo tentativo alle presidenziali.
Alla fine, nella Casa di Pizarro a Lima, è entrato Castillo, contro lo scetticismo iniziale e le svariate critiche di incapacità. Secondo molti, il vero motivo della vittoria è stato ampiamente attribuito al disprezzo dei peruviani verso l’establishment politico, la dilagante corruzione e l’antagonista Keiko Fujimori. A discapito della Señora K, l’eredità pesantemente contaminata del padre Alberto, condannato ad oltre 25 anni per aver diretto squadroni della morte, è pesata e non poco sul risultato.In questo senso Castillo si è posto come volto nuovo della politica ed establishment tradizionale peruviano, pur non avendo praticamente mai avuto esperienze di alto livello politico.
A guidare il Paese con lui Perù Libre, il partito che lo sostiene di timbro marxista e leninista. Anche in questo caso pioggia di problematiche e critiche, ad esempio sul fondatore di questo partito, ovvero Vladimir Cerrón, condannato per corruzione.
Nonostante le svariate problematiche di partenza, e la popolazione peruviana esacerbata dal passato e dalla situazione sociale ed economica, il presidente neofita ha messo sul piatto differenti proposte.
In primo luogo la proposta di convocazione di un’assemblea costituente, necessaria per le riforme costituzionali, ma di difficile realizzazione avendo al congresso solo 37 seggi su 130, dominati dai partiti di opposizione conservatori e visceralmente ostili al nuovo governo.
L’aumento della tassazione per le imprese nazionali e straniere, aumento delle imposte sulle importazioni di beni prodotti in Perù, l’aumento degli investimenti pubblici e la revisione dei contratti con le imprese multinazionali operanti nel settore minerario, le altre proposte di rilievo di Castillo.
Dalle parole e proposte, il presidente è dovuto passare subito ai fatti, scontrandosi con la dura realtà.
Una primo passo è stato l’alleggerimento della sua stessa posizione. Da conclamato di sinistra, come il partito, Castillo ha dovuto ripiegare ammorbidendosi ed improvvisamente desiderare di abbandonare molte delle sue promesse elettorali populiste e potenzialmente costose. Gli investimenti esteri al minimo storico e la diffidenza, oltre che timori per un Perù simile al Venezuela di Chavez e Maduro, hanno obbligato Castillo a battere in ritirata.
Così il Presidente si è rivolto direttamente al Consiglio permanente dell’Organizzazione degli Stati americani a Washington il mese scorso, cercando di placare i timori del mercato e cercando di assicurare il vasto settore minerario del Perù, che aveva precedentemente promesso di nazionalizzare, che il suo governo non avrebbe avviato alcuna riforma drastica.
Nonostante l’operazione di cucitura nei rapporti esteri e con la comunità imprenditoriale peruviana, un ulteriore ostacolo si è posto sulla strada di Castillo. Questa volta il problema è impersonificato dall’ormai ex primo ministro Guido Bellido. Personaggio controverso, misogino ed omofobo, ha deflagrato la bomba Camisea, giacimento di gas naturale in Amazzonia, nonché il più grande progetto energetico del Perù. Un’uscita dai ranghi di Bellido, che ha minacciato di impadronirsi di Camisea, contro la volontà del consorzio (che include dei membri della texana Hunt Oil), che come effetto boomerang avrebbe quasi certamente portato il Centro Internazionale per la risoluzione delle controversie sugli investimenti della Banca Mondiale a condannare il Perù al pagamento di un risarcimento enorme.
Rischio scongiurato per il momento, con valanga di analisi e critiche sulla gestione della Camisea. Il Perù, sia con i decenni di governo precedenti, sia con Castillo, è incapace di sfruttare a pieno il progetto. La domanda di carburante troppo bassa in Perù e le infrastrutture mai costruite (tra cui il gasdotto transandino), sono la fotografia del fallimento della politica peruviana.
Nemmeno il tempo di archiviare il caso Bellido, che il governo Castillo si è trovato a dover fare i conti con altri scandali. Il primo sul ministro del lavoro Iber Maraví, seguito poi delle diatribe interne alla coalizione che coinvolgevano Bellido ed il ministro degli esteri Óscar Maúrtua.
Il risultato del caos è stata la scelta del capo di Stato peruviano di un rimpasto governativo avvenuto qualche settimana fa. Su 19 ministri sono stati 7 i cambi. Su tutti, il cambio di dicastero più fragoroso è stato proprio quello di Guido Bellido, sostituito dall’avvocato Mirtha Vázquez (attivista, ambientalista ed impegnata per la tutela dei diritti umani, esponente dell’ala più moderata della coalizione). A saltare è stato anche Iber Maraví. Unica nota positiva in un ambiente difficilissimo è la presenza di 5 donne ai dicasteri rispetto alle 2 iniziali. Facile intuire come questi cambi abbiano smosso ancor di più le acque già tutt’altro che calme del governo peruviano.
Castillo si trova di fronte a se l’arduo compito di risollevare il Perù, e ormai anche a salvare la sua presidenza.
Un governo instabile, al quale Castillo non riesce a dare autorità e stabilità. Stesso discorso vale per il Paese stesso, colpito duramente dalla pandemia (tristemente negli ultimi posti nel bilancio di vittime pro capite). Il PIL peruviano ha registrato una flessione del 11% in negativo nel solo 2020, e dove il 20% della popolazione vive in condizioni di povertà, sono cifre pesantissime. L’instabilità ed incertezza politica non è una novità per il Perù, tre presidenti cambiati in appena dieci giorni nel novembre 2020, ma ciò non può essere una giustificante al lavoro fin qui svolto dal governo.
Pedro Castillo pare spettatore del suo stesso governo, il Paese devastato dai problemi se n’è accorto, tanto che 6 peruviani su 10 pensano che il presidente manchi di leadership, oltre che di capacità politiche.
Giusto per rendere l’idea, Castillo dal suo insediamento il 28 luglio, non ha rilasciato conferenze stampa o interviste ai media.
La posizione del capo di stato del Paese andino è barcollante e minacciata da ogni lato. Dall’opposizione al suo stesso partito, dai problemi in ambito economico, alle relazioni con l’estero che stentato a ripartire, passando dalla pandemia. Il caos ha preso il sopravvento nelle prime 11 settimane del suo mandato quinquennale, e Castillo è già in forte dubbio se riuscirà a salvare il suo posto alla Casa di Pizarro.
Fonti: El Comercio; Foreign Policy; Il Caffè Geopolitico; Il Post; Perù Libre; ProActivo; Repubblica; The World Bank.