di Pietro Cattaneo

La Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) è la diga più grande dell’Africa e l’ottava al mondo per dimensioni. Costruita tra l’aprile 2011 e il luglio dello scorso anno, è situata in Etiopia, lungo il Nilo Azzurro, nella regione del Benishangul-Gumuz, a circa 40 km dal confine con il Sudan: il suo bacino, che occupa un’area di circa 1900 km², può contenere più di 70 miliardi di metri cubi d’acqua, una quantità quasi pari alla portata complessiva del Nilo in un anno intero.

Lo scopo primario per cui questa diga è stata realizzata è la fornitura all’Etiopia di energia elettrica a basso costo. L’83% della popolazione, infatti, non ha accesso a questa risorsa o lo ha in modo limitato e discontinuo. La quantità di energia prodotta – stimata in 6000 MW – permetterebbe ad Addis Abeba non solo di soddisfare il bisogno civile ed industriale di elettricità a livello nazionale, ma anche di esportarne una buona parte presso i Paesi viciniori: ciò accrescerebbe notevolmente l’importanza dell’Etiopia nel contesto regionale del bacino del Nilo, tradizionalmente dominato dall’Egitto.

Il percorso di questa imponente e ambiziosa opera è sempre stato costellato da numerose problematiche di ordine giuridico, strategico e geopolitico, molte delle quali ad oggi ancora insolute e che hanno minacciato a più riprese la sicurezza nel nord-est dell’Africa. È molto eloquente in questo senso il fatto che la sua costruzione sia stata pagata quasi interamente con fondi etiopi. Gli investitori stranieri, infatti, temendo che la GERD potesse costituire un casus belli a livello regionale, hanno preferito non finanziarla.

L’Etiopia sostiene che la costruzione della diga non avrà alcun impatto significativo sugli stati a valle, ovvero Sudan e Egitto. Al contrario, il Cairo riconosce in essa una minaccia per la propria sicurezza alimentare e ambientale. Il Nilo Azzurro, infatti, fornisce circa l’80% delle acque al Nilo, da cui dipende il 98% dell’approvvigionamento idrico del Paese. Secondo l’Egitto, la diga diminuirebbe considerevolmente la portata del fiume, causando la desertificazione della maggior parte dei terreni agricoli e riducendo la quantità di energia prodotta dalla diga di Assuan.

L’importanza che la GERD riveste nel quadro geopolitico africano è particolarmente evidente se si considera la centralità che la cosiddetta idrodiplomazia – ossia la gestione dei corsi d’acqua che attraversano più confini nazionali – riveste nelle policy interne di molti Paesi dell’area, in cui le risorse idriche scarseggiano e sono considerate, a tutti gli effetti, questioni legate alla sicurezza nazionale e al balance of power regionale. Le decisioni di un singolo Stato possono potenzialmente determinare o ridefinire i rapporti di forza nell’intera area afferente al corso d’acqua. Nel caso della GERD è possibile identificare chiaramente questa dinamica: la decennale egemonia egiziana sulle acque del Nilo e sull’intera area del Mar Rosso si ritrova ad essere messa in discussione.

L’Etiopia – che, di fatto, gestisce un’ingente quantità di risorse idriche –  ha in realtà a lungo cercato di portare avanti una politica di contrasto all’egemonia egiziana, pur avendo mezzi e capacità politiche, economiche e tecniche estremamente limitate per poterlo fare. Dietro il recente successo di questa politica di Addis Abeba risiedono, infatti, due importanti fattori.

Il primo è di carattere esogeno e risiede nell’attrattiva che l’area della GERD, ricca di risorse minerali e fossili, esercita nei confronti di numerosi attori internazionali. L’Etiopia, infatti, è stata particolarmente legata alla Cina sin dagli anni della Guerra Fredda. Pechino ha fornito un’ingente quantità di aiuti a sostegno dell’economia etiope, che hanno riguardato in particolare lo sviluppo infrastrutturale e dell’industrializzazione. Pur non essendo direttamente coinvolta nel progetto della GERD, ha provveduto – attraverso una compagnia di Stato – a finanziare l’85% dei costi delle linee di trasmissione della diga. Accanto a questo tradizionale legame con la Cina, Addis Abeba ha stretto negli ultimi anni importanti rapporti economici e politici con altre potenze regionali quali India, Russia, Emirati Arabi Uniti e Turchia. In particolare, quest’ultimo Stato ha stretto con l’Etiopia una relazione in chiave strettamente antiegiziana, dal momento che il Cairo contrasta apertamente le posizioni di Ankara nei confronti della situazione libica.

Il secondo, invece, è di carattere endogeno e riguarda la forte valenza simbolica che la GERD riveste per il popolo etiope. Lo stesso nome dato alla diga è prova del suo grande valore identitario: si parla di “rinascita”, come se si trattasse di un ritorno a una “gloria del passato [che] rivela un tentativo di trasformare l’immagine dell’Etiopia da quella di un Paese povero, dipendente dagli aiuti esteri a quella di un leader regionale emergente capace di autofinanziare degli enormi progetti, come la GERD” (Nasr e Neef, 2016).

L’Egitto, sentendosi minacciato nel proprio ruolo egemone, in un primo momento si è trovato a difendere stoicamente lo status quo, in particolare sotto la presidenza di Mohamed Morsi. Le minacce che Il Cairo ha percepito con l’inizio dei lavori della GERD, infatti, lo hanno portato a iniziare una vera e propria campagna diplomatica a livello regionale e internazionale per sabotare qualunque implementazione del progetto di costruzione della diga. La constatazione dell’impossibilità di fermarne l’avanzare, però, ha costretto l’Egitto a cambiare strategia, rivolgendosi ad attori esterni. Se da un lato il Cairo ha cercato di rinforzare i legami con gli altri Stati del bacino del Nilo attraverso trattati bilaterali e investimenti mirati, dall’altro ha trovato il sostegno di Washington, tradizionale alleato che, sin dagli accordi di Camp David, considera l’Egitto fondamentale nella stabilità della regione.

Il fallimento della proposta perorata dagli Stati Uniti dimostra – ancora una volta – che l’ingerenza di stampo post-coloniale portata avanti dai Paesi occidentali nei confronti degli affari africani non contribuisce minimamente alla risoluzione dei problemi esistenti, spesso addirittura esacerbati da simili azioni. Tuttavia, la volontà di continuare le trattative che le parti in causa hanno dimostrato allontana ulteriormente lo spettro del conflitto armato come soluzione ultima della questione, evocato a più riprese da parte egiziana nel corso dei primi anni di trattative.

Lo spostamento del quadro negoziale in seno all’Unione Africana – seppur non abbia ancora, di fatto, prodotto alcun frutto – è già in sé particolarmente significativo, perché è sintomo di un cambiamento di paradigma in atto da parte di tutti i Paesi coinvolti. L’attenzione, infatti, si è progressivamente spostata da una visione marcatamente regionale della questione verso un riconoscimento della centralità che la politica di gestione delle acque del Nilo riveste per l’intero continente africano.

La prima sfida per il futuro che la GERD pone va ben oltre il possibile esito della questione, ma riguarda la capacità dell’Unione Africana di fornire nuovi, efficaci setting istituzionali per la risoluzione delle controversie. Un’eventuale ripresa delle trattative – auspicata peraltro dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – costituirebbe un’ulteriore, storico passo in questa direzione.

Per concludere, non va dimenticato che nella fase storica attuale l’impatto geopolitico della GERD sui Paesi del bacino del Nilo deve essere necessariamente considerato di pari passo con gli effetti del cambiamento climatico in atto. Il rischio idrogeologico legato alla diga in relazione al riscaldamento globale è comunque incerto e le proiezioni per i prossimi anni mostrano come l’aumentata concentrazione e intensità delle piogge non possa, di fatto, garantire una maggiore stabilità idrica nell’area, tenuto conto anche del previsto aumento di popolazione nei territori. La conseguenza dell’inevitabile riduzione delle risorse presenti è una ulteriore moltiplicazione dei conflitti internazionali e interni, in particolare nel contesto di Paesi che si trovano già a fare i conti con una diffusa instabilità. Per far fronte alla scarsità idrica e poter mettere tutti gli Stati del bacino in condizione di godere delle risorse esistenti, si profila dunque una seconda, interessante sfida nella gestione futura della GERD: un’applicazione dell’idrodiplomazia che vada nel senso dell’idrosolidarietà, un management delle risorse idriche sostenibile socialmente e dal punto di vista ambientale, che promuova lo sviluppo economico e la coesione delle differenti comunità.

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