Lo scorso lunedì Pechino ha sorvolato i cieli di Taiwan con decine di aerei militari, più precisamente nella cosiddetta ADIZ: la zona di identificazione per la difesa aerea, ossia quella parte di cielo che per ragione di sicurezza nazionale viene costantemente regolamentata e ne viene controllato l’accesso. Se si sommano episodi simili nei giorni precedenti gli aerei da combattimento cinesi volati su Taiwan sono oltre 140 – se si considera il dato annuo si sfiorano addirittura le 400 unità – a dimostrazione di come episodi simili siano all’ordine del giorno da parte di una grande potenza nei confronti di un territorio ambiguo, come di fatto è Taiwan per la Repubblica Popolare.
Taiwan is the most dangerous place on earth per l’Economist[1] a causa delle sue peculiarità e di ciò che rappresenta quel territorio nei dissidi tra Cina e Stati Uniti, i due grandi rivali di questa prima parte di secolo. Due elementi fondamentali fanno di Taiwan un’area di potenziale conflitto in futuro: la rilevanza geopolitica e strategica naturalmente, oltre alla importanza economica. Ma non solo, a ciò si aggiunge un ulteriore aspetto, ossia il valore storico e culturale che una eventuale riunificazione completa della Cina rappresenterebbe per sé stessa, il proprio Presidente e il proprio futuro di potenza. Se le regioni geopolitiche sono note da tempo, non è da sottovalutare l’aspetto culturale nella questione, poiché talvolta per Pechino – così come per altri popoli sul globo terreste – funge da carburante per l’orgoglio cinese, il quale muove poi di conseguenza le proprie pedine sullo scacchiere.
D’altro canto, ad oggi le possibilità che un conflitto tra le due grandi potenze possa effettivamente scoppiare sono quanto mai basse: né l’una né l’altra sembrano avere intenzione di impegnarsi in un confronto così logorante. Washington non è pronta – in particolar modo dopo la ritirata epocale da Kabul e l’Afghanistan – a sacrificare energie e risorse così ingenti e a scapito della propria stabilità interna. Pechino al contempo vuole garantire prosperità economica alla popolazione, perché il partito comunista che guida il paese fonda il proprio potere sulla garanzia di benessere economico; inoltre, è opportuno considerare anche l’inesperienza cinese ai conflitti, ragion per cui appare poco plausibile che essi possano iniziare a maturare militarmente in un conflitto con una potenza così bellicosa come gli Stati Uniti.
In un quadro di questo tipo meglio si spiegano i voli militari cinesi su Taiwan. Oltre che essere un costante segnale del totale rifiuto di Pechino a concedere una vera indipendenza a Taiwan, le azioni cinesi costituiscono anche una risposta diretta alla cooperazione del fronte nemico nelle acque dell’Indo-Pacifico. Infatti, a fine agosto gli Stati Uniti hanno concluso un accordo con Taipei per la vendita di armi e – poche settimane più tardi – la potenza americana ha siglato un accordo con Regno Unito e Australia, il cosiddetto patto AUKUS. Allo stesso tempo, i due storici alleati (Londra e Washington) insieme al Giappone hanno condotto maestose esercitazioni militari nelle acque meridionali cinesi. E infine – in aggiunta a questi già considerevoli eventi – Taiwan ha chiesto l’adesione al CPTPP (Comprensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership), un accordo commerciale con un numero già consistente di paesi dell’area coinvolti e al quale Pechino stessa ha chiesto di aderire recentemente. Xi Jinping continua a non vedere di buon occhio l’atteggiamento di Taiwan che mostra costanti segnali di sovranità ed indipendenza, elementi totalmente inaccettabili per il leader cinese e la sua visione di futuro.
Per quanto concerne il territorio europeo, anche su questo versante la Cina ha gli occhi puntati e ben attenti. Il Parlamento europeo insiste sulla creazione di un asse bilaterale per gli investimenti fra Bruxelles e Taipei. In precedenza, per la prima volta uno Stato membro (la Lituania) ha inaugurato al proprio interno un ufficio di rappresentanza taiwanese. Questi eventi sgraditi a Pechino hanno portato all’incontro tra il Ministro degli esteri cinese e l’Alto rappresentante UE per discutere di quali siano i progetti futuri dell’Unione sull’isola di Taiwan. Se l’UE pur ammettendo l’intenzione di sviluppare rapporti sempre più intensi ha garantito una sorta di fedeltà alla Cina, Pechino rimane consapevole che l’alleanza atlantica non è affatto morta e, anzi, pulsa ancora.
Al contempo, la voce che si alza da Taiwan e che non può essere ignorata è quella della Presidente Tsai Ing-wen che pubblicando un articolo sul sito americano Foreign Affairs[2] ha lanciato un chiaro monito a tutti i players internazionali, Stati Uniti in primis. Se dovesse cadere Taiwan, cadrebbe la pace regionale e il sistema democratico dell’isola. Ma non solo, cadrebbe anche la concezione di superiorità e forza delle democrazie occidentali nei confronti degli autoritarismi. La leader taiwanese non è nuova a questi messaggi verso gli Stati Uniti e i recenti eventi sul suolo afghano sono ancora ben impressi nella memoria collettiva. Sull’isola di Taiwan aleggia una nube di preoccupazione e incertezza verso il futuro: Washington appare rassicurante e molto vicina quando compie azioni in funzione anti-cinese nell’area circostante, ma appare al contempo molto lontana e inaffidabile quando abbandona a sé stesso il popolo afghano dopo un’occupazione ultradecennale.
Forse l’unica certezza è che i cittadini taiwanesi continueranno a vedere flotte militari volare sulle proprie teste. Si tratterà di capire se continueranno ad essere solamente aerei cinesi, oppure inizieranno a scrutarsi all’orizzonte anche quelli a stelle e strisce. In tal caso, le prospettive di un conflitto armato potrebbero essere ben più concrete: sarebbe forse un barlume di futuro potenzialmente indipendente per il quale il sangue versato potrebbe non andare sprecato.
[1] Maggio 2021; https://www.economist.com/leaders/2021/05/01/the-most-dangerous-place-on-earth
[2] https://www.foreignaffairs.com/articles/taiwan/2021-10-05/taiwan-and-fight-democracy