di Michelangelo Cerracchio

Il disimpegno statunitense dall’Afghanistan è stato una prova di maturità per nulla scontata ma in linea con i dettami della strategia americana, ormai dall’amministrazione Obama volta ad alleggerirsi dagli scenari di minore urgenza anteponendovi le priorità dell’Impero. Ovvero ridurre gli impegni troppo onerosi in Medio Oriente e in Europa per concentrarsi sul contenimento marittimo nell’Indo-Pacifico. Per interpretare correttamente il ripensamento strategico degli Stati Uniti dell’ultimo decennio, non possiamo esimerci dal comprendere l’ossessione di ogni altra potenza egemonica, ovvero estendersi fino al punto di non poter più sostenere gli oneri dell’egemonia e accorgersene quando è ormai troppo tardi per rimediarvi.

La ricetta per evitare di dissanguarsi prevede da una parte l’incremento di risorse – migliorando la propria efficienza interna e ricordando agli alleati l’inderogabilità dei loro contributi – e dall’altra riduzione degli impegni – svincolandosi dai teatri più costosi e meno urgenti, ritirandosi dagli avamposti più vulnerabili e facendo possibili concessioni ai nemici. Ecco perché è sbagliato considerare la ritirata americana una debacle, anticamera della fine degli Stati Uniti o, peggio, del collasso dell’Occidente. Soprattutto se quella in questione non solo è la guerra più lunga mai condotta dagli States, ma, assieme agli altri teatri coinvolti nella Global War on Terror, anche la più insensata: come si può identificare un nemico con un metodo di guerriglia quale, appunto, il terrorismo?

Un errore capitale figlio dello spirito vendicativo (quindi belligerante, innato in una grande potenza) scaturito dagli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono in un momento in cui gli americani erano la superpotenza indiscussa che, sull’onda della galvanizzazione dalla vittoria contro l’Unione Sovietica, poteva intervenire dove voleva soltanto perché poteva. Due congiunzioni che hanno trovato nella guerra globale al terrore la formula per legittimare a sé stessi e agli occhi del mondo il proprio status (para)egemonico, quindi legittimare l’esercizio dello strumento militare rivoluzionando il concetto di legittima difesa, ovvero scovare e neutralizzare la minaccia senza aspettare che questa si concretizzi materialmente (pre-emtive strategy). Conseguentemente, l’illimitatezza del proprio raggio d’azione è al contempo condizione imprescindibile per mantenere il proprio status e causa dell’alterazione dell’equilibrio tra impegni e risorse, con il risultato di spingere la nazione verso la suddetta trappola dell’egemonia: eterogenesi dei fini di ogni potenza egemonica.

Sul piano più strettamente geopolitico, la proiezione di potenza illimitata sarebbe però inoperabile senza il controllo degli oceani (la più grande dimensione di una potenza) di cui godono gli americani, che, in virtù del loro status, sfruttano il mare per proiettarsi negli altri teatri. Pertanto, la strategia americana sarà volta a circondare le potenze terragne nemiche nel continente eurasiatico e mantenere il controllo delle rotte marittime in nome del principio di libera circolazione del mare. La strategia si focalizza sul controllo dei principali stretti e canali, in gergo choke-points, che circondano il continente euro-asiatico – Gibilterra, Sicilia, Suez, Bāb al-Mandab, Malacca, Taiwan, Tsushima, Bering e il Giuk gap – con una duplice funzione: potenziale ghigliottina contro il commercio marittimo di uno o più paesi o porta antincendio per evitare che il fuoco si dipani dall’epicentro di un conflitto. Ciò grazie al dispiegamento del loro arsenale aeronavale in diverse basi in prossimità dei colli di bottiglia, ovvero in Inghilterra, Spagna, Italia, Germania, Gibuti, Bahrein, Diego Garcia, Singapore, Giappone e a Guam.

Condicio sine qua non nel nuovo disegno strategico statunitense è il rapporto con i nemici e con gli alleati, il cui comun denominatore sta nell’evitare di assumere impegni che non siano di primaria importanza. Conseguentemente, Washington dovrà gerarchizzare i propri avversari per decidere chi affrontare con maggiore veemenza, magari provando a giocare gli uni contro gli altri: Pechino, Mosca, Berlino, Ankara e Teheran sono, in questo senso, la principale fonte di preoccupazione degli apparati americani. Tutte potenze terrestri che ambiscono al mare per acquisire profondità strategica allontanando la prima linea di difesa e per intestarsi il controllo di una fetta delle rotte marittime.

La Cina è ovviamente la prima preoccupazione americana, ma non tanto per la sua vertiginosa crescita economica – da cui gli attori regionali e non, con spiccato realismo, cercano di trarre il massimo vantaggio possibile –, quanto per il rafforzamento del suo apparato bellico e le sue rivendicazioni nel Mar Cinese Orientale e Meridionale. L’obiettivo di Pechino è incrementare la propria influenza nella regione sfruttando le ingenti risorse nel sottosuolo marino e costellando i mari di basi militari da cui interdire l’accesso agli Stati Uniti, controllare le rotte marittime e proiettare efficacemente potenza in caso di conflitto. 

Si dà il caso che l’80% del commercio mondiale avviene in mare e che dal mediterraneo asiatico passa il 60% delle merci. Se, come detto, gli americani dominano il mare, è logico comprendere che, in caso di crisi, l’approccio indiretto più efficace nei confronti della Repubblica Popolare sarebbe la chiusura dello stretto di Malacca e, quindi, il soffocamento dell’economia cinese che pregiudicherebbe la stabilità di un paese già afflitto da problematiche demografiche e geopolitiche interne. A questo proposito, la competizione nell’Indo-Pacifico si è intensificata molto nell’ultimo quinquennio, portando gli Stati Uniti a rafforzare in chiave anticinese sia il dialogo quadrilaterale di sicurezza (QUAD) con Australia, Giappone e India che la cooperazione in materia di difesa con Corea del Sud, Filippine, Vietnam, Indonesia e Malesia. La concentrazione di alleati con cui ripartire i costi della competizione a ridosso dei confini del nemico è il grande vantaggio geostrategico di Washington su Pechino – oltre al fatto che gli alleati della Repubblica Popolare, ovvero il Pakistan e la Corea del Nord, sono pochi e inaffidabili.

Il secondo nemico degli Stati Uniti è la Federazione Russa. Ma è proprio in virtù della loro acerrima rivalità che durante la Guerra Fredda, dopo quarant’anni sull’orlo di un olocausto nucleare, hanno imparato a conoscersi, ad intendersi. Non è un caso che tutte le amministrazioni americane da Bush figlio ad oggi abbiano tentato di aprire alla Russia per controbilanciare l’ascesa egemonica della Cina in Asia Orientale (oggi Indo-Pacifico). E non è un caso che tutte abbiano trovato la ferma opposizione degli apparati americani. Se è vero che la Cina è il dossier più urgente, non è detto che quello sulla Germania, quindi sull’Europa, sia meno importante. Il continente europeo assoggettato alla NATO e all’Unione Europea è il cuore dell’impero americano, pensato in funzione tanto anti-russa per contrastarne la sfera d’influenza quanto anti-tedesca per evitare spiacevoli revanscismi.

Il via libera al completamento dei lavori per il Nordstream 2 dalla Russia alla Germania potrebbe sembrare quindi un controsenso. Dovrebbe essere un mostruoso connubio. È invece espressione del disegno strategico che gli americani hanno in serbo per i loro “colleghi” europei: concedere delle contropartite al blocco occidentale della NATO (Regno Unito, Francia, Germania e Italia in primis) per convogliare, quando serviranno, i loro sforzi nel contenimento marittimo della Cina, ribadendo allo stesso tempo la loro utilità sia per contrastare la penetrazione russo-turca del Nord Africa che per arginare le infiltrazioni cinesi nel continente. Starà invece al blocco orientale della NATO (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania – e in parte anche il Regno Unito) operare in funzione antirussa, facendo leva sulla russofobia di questi paesi.

Il motivo dell’alleggerimento parziale della pressione della Casa Bianca sul Cremlino è dovuto al ruolo che Mosca potrebbe svolgere in chiave anti-cinese. Nell’incontro di settimana scorsa ad Helsinki, il capo dello Stato maggiore congiunto americano e la sua controparte russa hanno discusso riguardo l’utilizzo americano di basi russe in Asia Centrale per condurre operazioni anti-terroristiche in Afghanistan. Oltre alla questione del terrorismo in sé e per sé, la notizia cela la necessità di Mosca di “difendere la propria influenza in Asia Centrale e segnalare agli Stati Uniti di non essere un mostro, ma una potenza quasi alla pari, utile, non intenzionata a consegnarsi alla Cina” [1]. Russia e Cina non sono gemelle, sono piuttosto una strana coppia [2]; capaci di coordinare su molteplici dossier ma mai fino al punto di potersi definire alleati – impossibile per due giganti che confinano per più di 4000 chilometri.

Inoltre, sebbene sia nel lungo periodo un potenziale nemico di Washington a causa delle proprie ambizioni neo-ottomane, Ankara è attualmente uno degli alleati fondamentali per la superpotenza grazie alla sua centralità geopolitica. Con una quadrupla funzione: dialogare con Mosca da una posizione di vantaggio attraverso il controllo dello Stretto dei Dardanelli, che priverebbe la Russia dell’accesso al Mediterraneo; arginare la penetrazione sino-russa nell’impero statunitense; tenere sotto scacco la Germania giocando sulla componente turcofona nel paese teutonico e regolando i flussi migratori che potrebbero riversarsi in Europa acuendo le divisioni trai membri dell’Unione Europea; e, infine, mantenere dei rapporti di forza favorevoli nel Grande Medio Oriente tra Turchia, Israele, Arabia Saudita e Iran per evitare che nessun attore assurga a potenza egemone dell’area.

In conclusione, nella strategia americana il grosso delle risorse è destinato al contenimento della Cina, sfruttando la paura degli attori regionali (e non) nell’Indo-Pacifico per ripartirne i costi, attenuare la propria fatica imperiale e sventare il dominio dell’area di Pechino. Così come Washington non può permettere che altre potenze, alleate o rivali che siano, assurgano al rango di potenza egemone nel loro teatro di riferimento.

Perché è questo, in fondo, il fine ultimo di ogni impero.
E, al tempo stesso, la sua dannazione.
Eterogenesi dei fini di ogni potenza egemonica.

Per approfondire:

Foto:

The National Interest.

Riferimenti:

[1] Dario Fabbri e Federico Petroni, Russi e americani sulle basi in centrasia, in Notizie dal Mondo, Limes, 28 settembre 2021;

[2] Cina – Russia, la strana coppia, Limes 11/19.

Bibliografia:

Daniele Santoro, Come Ankara si serve di Washington, Limes, 3 febbraio 2021; 

Federico Petroni, Il cerchio eurasiatico, il Medioceano e la strategia geopolitica degli Stati Uniti, Limes, 10 settembre 2021;

HMS Defender: Russian jets and ships shadow British warship, BBC, 23 giugno 2021;

How Much Trade Transits the South China Sea?, China Power, 2 agosto 2017.

Joint Leaders Statement on AUKUS, The White House, 15 settembre 2021;

Kathrin Hille, Jasmine Cameron-Chileshe and Demetri Sevastopulo, Britain ‘more helpful’ closer to home than in Asia, says US defence chief, Financial Times, 27 luglio 2021;

Michael R. Gordon and Gordon Lubold, U.S. Asked Russia About Offer of Bases to Monitor Afghan Terror Threat, The Wall Street Journal, 27 settembre 2021;

Mirko Mussetti, Carta di Laura Canali, La nuova Nato degli americani, Limes 22 Luglio 2021.

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