di Michelangelo Cerracchio

Colonna sonora consigliata: Dialogue Between A Fisherman And A Woodcutter – 渔礁问答

I festeggiamenti del primo luglio in occasione del centenario della fondazione del Partito Comunista cinese hanno puntato i riflettori sul discorso del Presidente Xi Jinping, imperniato sul concetto di “risorgimento della grande nazione cinese”[1] e volto a riscattare il secolo di umiliazioni che dalla prima guerre dell’oppio (1839–1842) all’istituzione della Repubblica popolare cinese (1949) ha visto la Cina soggiogata alle potenze occidentali e al Giappone. Xi innalza il Partito a faro, la cui luce ha guidato la nazione fuori dalla tempesta, che tale deve rimanere per dimostrare stabilità agli occhi della popolazione e ai nemici.

“The Great Journey”: l’esibizione artistica tenutasi il 28 giugno per commemorare il centenario della fondazione del Partito comunista cinese allo Stadio nazionale di Pechino. Fonte: cgtn.com

L’obiettivo strategico, di cui il centenario del partito è solo tappa di mezzo, è la Grande Riunificazione con i “compatrioti su entrambi i lati dello stretto di Taiwan”[2] in occasione del centenario della Repubblica popolare cinese del 2049. Taiwan non è solo fondamentale per mero tornaconto ideologico, bensì ha una rilevanza geostrategica che permetterebbe a Pechino di trovare profondità verso il Pacifico e di proteggere più facilmente le proprie coste. Un avamposto indispensabile all’Impero di centro per proiettare potenza e schivare il monitoraggio delle basi americane in Corea del Sud, Giappone e Filippine[3].

Il controllo di Formosa si iscrive nell’affermazione del proprio status di grande potenza. Nel suo discorso, Xi ha confermato l’implementazione del piano integrato delle cinque sfere, ovvero la promozione del coordinamento tra progressi economici, politici, culturali sociali ed ecologici, e della strategia globale dei quattro fronti[4]. Quest’ultima è volta a: incentrare la “forza nazionale omnicomprensiva” sul rinvigorimento del Partito comunista, rinnovare l’economia cinese tramite investimenti e perorazioni nazionali, rendere il popolo fiero del proprio patrimonio storico-culturale di cui il Partito è messaggero, e sfruttare leve economiche per persuadere avversari e paesi neutri a non reputare la Cina minacciosa.

Tutto questo si traduce a livello geopolitico nella ricerca di spazio e l’inevitabile ascesa cinese ad egemone regionale si scontrerà con le forze telluriche del sistema internazionale.

Se la terra è il contenitore di tutte le risorse della potenza, il mare è quel mezzo che permette ad essa di commerciare globalmente ma soprattutto di prevenire eventuali attacchi alla madrepatria dall’alto mare. La strategia cinese volta alla ricerca di sicurezza e profondità è corredata:

  • dalla rivendicazione del bacino perimetrato dalla ten dotted line, crocevia di rotte marittime ricco di risorse energetiche e ittiche[5], implementata con la costruzione di isolotti artificiali per scopi civili e militari, con la reintegrazione di Taiwan e con il contrasto alle rivendicazioni dei paesi litoranei[6] sulle isole Spratley, Paracelso e Senkaku/Diaoyu;
  • dalla volontà di Pechino di escludere Corea del Sud, Giappone e Filippine dal supporto navale americano, ovvero spingere la sua proiezione di potenza fuori dalla prima catena di isole;
  • dalla contestazione del controllo statunitense sulla seconda e terza catena fino a Guam e alle Hawaii, che Pechino sfrutterebbe per creare una flotta d’alto mare operante con autonomia lontano dalla madrepatria – attualmente possiede due portaerei e una nucleare sarà varata a breve, contro le 11 portaerei nucleari americane.

La strategia delle catene di isole non è solo volta a contrastare nelle aree contese Stati Uniti e alleati, quanto piuttosto ad assurgere a potenza marittima[7]. Infatti, una serie di complessi portuali cinesi dual-use, come quelli in Pakistan e nello Sri Lanka, e l’unica base militare cinese all’estero, sita in Gibuti, contribuirebbero ad una collana di perle volta ad estendere la strategia marittima a un’ipotetica quarta e quinta[8] catena di isole nell’Oceano Indiano. Le ultime due sarebbero fondamentali per accerchiare l’India dal mare. Inoltre, garantirebbero l’approvvigionamento petrolifero dal Medio Oriente e il mantenimento dei propri interessi economico-strategici grazie al controllo delle rotte e degli stretti più importanti: Bab-el-Mandeb, Hormuz, Malacca, Sunda e Lombok.

Fonte: Asia Maritime Transparency Initiative.

Tale concetto strategico è funzionale all’ascesa della Cina ad egemone regionale, con due vantaggi assoluti annessi: poter prevenire eventuali attacchi nemici nel proprio emisfero e dominare la propria porzione di mondo. Gli Stati Uniti raggiunsero l’egemonia agli inizi del secolo scorso espandendosi con conquiste violente e acquisizioni territoriali fino a divenire una sorta di isola, confinante a Nord e Sud con due nani geopolitici e delimitata ad Est e Ovest da due oceani, e dunque non impensierita da eventuali attacchi terragni.

Vi è però una differenza sostanziale: se per gli Stati Uniti l’espansione territoriale era necessaria per imporsi come grande potenza, alla Cina non servono ulteriori conquiste per diventare tale e la sua ascesa si iscrive in un quadrante già saturo di attori. Dal 2009 a Pechino non basta più “nascondere le capacità e guadagnare tempo”, come disse Mao Zedong, bensì è disposta a “sposare la causa nazionalista per confrontarsi con le potenze occidentale e i suoi vicini”, come riportato dal portavoce degli affari esteri di Pechino Zhao Lijian.

Ciò inasprisce il dilemma della sicurezza, secondo cui l’aumento delle spese militari di uno stato volte a massimizzare la propria sicurezza vengono percepite negativamente dagli attori circostanti, che temendo per loro sicurezza si riarmano e generano una spirale di mobilitazione bellica nel teatro Indo-Pacifico. Le dispute territoriali dell’Impero celeste che potrebbero sfociare in un conflitto abbondano. Da Taiwan alle isole Senkaku/Diaoyu, dalle isole Spratly e Paracelso alla secca di Scarborough, passando per i territori disputati con l’India e il Bhutan sull’Himalaya quali l’Aksai Chin e l’Arunachal Pradesh.

Carta elaborata su Metrocosm

Il fatto che il contenimento cinese per mano americana è volto a riconquistare il vantaggio assoluto di cui Washington ha sempre goduto dimostra la spirale della mobilitazione bellica. Infatti, se nel 1996 il vantaggio aero-navale americano era nell’ordine di 100 a 1, oggi l’apparato cinese è ancora molto deficitario, ma per Washington nemmeno una ratio di 10 a 1 sarebbe accettabile[9]. La coalizione bilanciante a guida statunitense ha tutto l’interesse nel far scaturire un conflitto convenzionale e limitato ora che la Cina è fragile e contenibile. Magari in mare, dove il rischio di escalation è molto minore. Magari in quelle stesse acque che Pechino rivendica come mare suum[10] in barba al diritto internazionale e dove abbondano le scaramucce[11] tra i navigli civili e paramilitari dei paesi costieri e le esercitazioni navali del QUAD[12] a guida americana. Incidente del Tonchino docet.

Sebbene questo sia il terreno di scontro preferito dalla coalizione bilanciante, Pechino opterebbe per Taiwan per i motivi di cui sopra anche a costo di perdite sostenute, come dimostrato dalle numerose incursioni di velivoli militari cinesi nello spazio aereo di Taipei. Non a caso diversi esperti militari cinesi hanno risposto molto duramente alla pubblicazione del Libro bianco della Difesa da parte di Tokyo, dove per la prima volta la difesa dell’indipendenza di Taiwan è stato indicato fulcro della propria sicurezza nazionale.

Ad aggravare la situazione ci sono quattro fattori di fragilità, che indurrebbero i nemici a cercare un pretesto per minare l’ascesa cinese e Xi a cavalcare l’eco di un possibile conflitto per coagulare la popolazione. La frattura tra entroterra e coste continua ad acuirsi e vede una migrazione inarrestabile verso le zone litoranee, sovrappopolandole, e lasciando scoperte le aree già scarsamente abitate del Xinjiang e del Plateau Tibetano, imprescindibili per il controllo delle vie della seta e del flusso dei sette fiumi[13] più importanti dell’Asia. La popolazione invecchia[14] e questa debolezza demografica esacerba ulteriormente il dilemma burro-cannoni. Infine, la collocazione geopolitica vede Pechino amica con paesi inaffidabili, ovvero Corea del Nord e Pakistan, e stretta nella morsa a tenaglia americana imperniata sugli stati sud-est asiatico. Facendo di India, Giappone e Australia lo strumento di massima pressione.

Ma quanto è evitabile il conflitto bellico? La cultura pacifica confuciana si è rilevato uno strumento di realpolitik perché legittima le guerre quando giuste ed è stato il cuore del paradigma para-bellico[15] a cui la Cina ha fatto ricorso nella sua storia plurimillenaria. Inoltre, nemmeno le teorie dell’interdipendenza economica assicurerebbero la pace, visto che guerre o crisi commerciali possono indurre un attore a vedere nel conflitto bellico come una possibilità: le guerre vengono mosse nella speranza che una vittoria rapida possa portare benefici economico-strategici più alti oltre che compattare il fronte interno. La possibilità aumenta se si pensa che quasi mai gli stati vogliono infliggersi un colpo mortale né troncare definitivamente i rapporti economici con l’altro belligerante.

La retorica aggressiva di Xi per compattare il paese è accompagnata dalle affermazioni del generale Xu Qiliang riguardo all’incremento delle spese militari per affrontare le “dispute territoriali” e la “trappola di Tucidide”, ovvero il timore che la guerra tra una potenza egemone e una ascendente sia inevitabile. Conseguentemente, il budget per la difesa, 209 miliardi di dollari, è cresciuto del 6,8% rispetto al 2020, ma potrebbe essere maggiore visto che quello del 2019 risulta essere stato il 40% in più rispetto a quello ufficiale. E se è vero che le guerre sono redditizie perché massimizzano il nazionalismo, non stupisce la massima di Mao pronunciata da Xi nel suo discorso: “Le nostre menti si rafforzano per il sacrificio dei martiri, osando far risplendere il sole e la luna nel nuovo cielo”.

Segue il video pubblicato dalla giunta comunale di Baoji, poi tradotto in inglese dall’attivista per i diritti umani Jennifer Zeng:

Foto in copertina: The Times of India.

Note:

[1] Xi Jinping, discorso alla cerimonia per il centenario del PCC.

[2] Ibidem.

[3] Giorgio Cuscito, Bollettino Imperiale del 22/04, Limes.

[4] Steve Tsang e Olivia Cheung, Uninterrupted Rise: China’s Global Strategy According to Xi Jinping, The Asian Forum.

[5] Lorenzo di Muro, La Cina cerca spazio, Limes.

[6] Rivendicazioni del Giappone sulle isole Senkaku/Diaoyu; di Taiwan e Vietnam sulle isole Paracelso; di Taiwan, Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei sulle isole Spratley.

[7] Andrew S. Erickson e Joel Wuthnow Barriers, Springboards and Benchmarks: China Conceptualizes the Pacifc “Island Chains”, The China Quarterly.

[8] Wilson VornDick, China’s reach has grown, so should the island chains, Asia Maritime Transparency Initiative.

[9] Fabio Mini, Come finì la guerra che non cominciò mai, in “L’Indo-pacifico non è pacifico”, Limes.

[10] Lorenzo di Muro, Il mondo oggi del 16/07/2021, Limes.

[11] Dario Fabbri, In Asia gli Stati Uniti hanno congelato l’ascesa della Cina, in “L’Indo-pacifico non è pacifico”, Limes.

[12] Quadrilateral Security Dialogue tra Stati Uniti, Giappone, India e Australia.

[13] Bramaputhra, Irrawaddy, Mekong, Salween, Sutley, Tyangtze e Fiume Giallo.

[14] Maria Morante, La demografia minaccia la potenza cinese, SIR – Students for International Relations.

[15] John Mearsheimer, Can China rise peacefully?, The National Interest.

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