L’attentato terroristico al Bataclan del 13 Novembre 2015, avvenuto per mano di un commando legato all’ISIS, rappresenta uno dei momenti più tragici della storia recente dell’Europa.
Nei mesi immediatamente successivi tutto il mondo occidentale ha convissuto con il timore quotidiano di possibili attacchi terroristici da parte di gruppi jihadisti. Tuttavia, nel giro di pochi anni, il mondo è cambiato: l’ISIS (o Daesh) ha di fatto perduto tutti i territori conquistati, e parallelamente la pandemia nell’ultimo anno e mezzo è diventata la principale minaccia per i cittadini europei.
La pandemia non solo ha riversato i suoi effetti sui governi dei vari stati del mondo, ma anche sulle organizzazioni jihadiste, la quali hanno dovuto adattarsi alle problematicità che il virus ha portato con sé, tra gestione dei contagi in rapido aumento, crisi economica e restrizioni. Le due principali organizzazioni jihadiste, ISIS ed Al-Qaeda (AQ), aventi entrambe l’obiettivo di espansione territoriale e la conversione di massa all’Islam, hanno avuto un approccio differente alla pandemia, dovuto anche alle rivalità createsi dopo lo scisma del 2014 che ha portato a una forte competizione e tensione tra i due gruppi. Queste frizioni hanno portato a differenti politiche di reclutamento e di obbiettivi e si sono ampliate a seguito della proclamazione da parte del Daesh del Califfato; inoltre, non sono diminuite né con la perdita di territori da parte dell’ISIS, né con la morte di Al-Baghdadi e neppure in seguito all’emergenza sanitaria, gestita appunto in maniera differente.
Infatti, per Al-Qaeda il coronavirus è stato considerato come una punizione per i peccati che le persone compiono quotidianamente, pur individuando nei lunghi periodi di quarantena l’opportunità per studiare in maniera approfondita l’Islam. AQ ha criticato fortemente le politiche di lotta al virus intraprese da Trump e Boris Johnson, poiché secondo l’organizzazione guidata da Al-Zawahiri andavano contro i principi dell’eugenetica. Ma nonostante queste prese di posizione, AQ non ha mai ordinato attacchi e azioni violente (se non per liberare i loro prigionieri) ma anzi ha mostrato una sorta di apertura anche verso i non musulmani, verso coloro che si sentivano discriminati (invitandoli a convertirsi all’Islam) soprattutto in concomitanza delle proteste a seguito dell’uccisione di George Floyd.
Molto diversa invece è stata la risposta dell’ISIS, che ha cambiato approccio nel giro di poco tempo: quando il virus ha colpito per prima la Cina è stato visto come una punizione divina per il trattamento riservato agli uiguri, mentre quando ha colpito l’Iran come un castigo per il loro credo sciita; infine, quando è giunto in occidente, una punizione per i comportamenti frivoli e immorali dei paesi occidentali.
Inoltre, sebbene il Daesh abbia richiamato l’attenzione sulle norme di prevenzione del contagio – come la limitazione degli spostamenti – allo stesso tempo ha incoraggiato tutte quelle azioni terroristiche che i giovani cosiddetti “lupi solitari”, potevano utilizzare contro le varie città o le persone occidentali. Questa retorica si è scontrata con le problematiche legate alle restrizioni e alle misure di contenimento del virus, come il distanziamento sociale, che hanno ridotto fortemente le possibilità di aggregazione riducendo di conseguenza le opportunità per potenziali nuovi attentati. Se in Europa la difficoltà di organizzare azioni terroristiche è stata evidente, al contrario in Africa e in Medio Oriente il gruppo guidato da Al-Qurayshi, succeduto a Al-Baghdadi, è riuscito a rafforzarsi e a tornare ad essere uno dei principali protagonisti regionali. Infatti, a causa della crisi economica mondiale dovuta alla pandemia molte persone in difficoltà sono state attratte dalle promesse dell’ISIS, che ha potuto infiltrarsi con maggiore facilità all’interno di quei tessuti sociali fortemente indeboliti dalla crisi sanitaria e socio-economica. Inoltre, l’ISIS ha sfruttato a suo favore le situazioni di instabilità politica che erano già presenti prima della pandemia e che si sono ampliate in questo anno e mezzo. Un caso emblematico in questo senso è quello dell’Afghanistan, dove – in concomitanza del ritiro delle truppe internazionali e l’insorgere delle forze talebane – avviene l’avanzata proprio del Daesh, stanziato principalmente lungo il confine con il Pakistan. In aggiunta si possono ricordare le situazioni di Libia e Siria segnate da grande instabilità politica: anche qui le truppe di Al-Qurayshi, che si trovano prevalentemente nelle zone deserte e lontane dai grandi centri abitati, sono ancora attive sia attraverso campagne di reclutamento, sia con alcuni attacchi a convogli militari. Ma la roccaforte dell’ISIS è stata da sempre l’Iraq, dove il califfato aveva come capitale Mosul. Nella parte settentrionale dell’Iraq, infatti, il Daesh sta cercando di riorganizzarsi sfruttando lo scontro tra le milizie sciite e quelle curde nella regione a nord di Kirkuk. Dunque, in questo contesto assumono ancora più vigore le parole pronunciate dal segretario di Stato USA Antony Blinken, che nel vertice della coalizione anti-Daesh tenutosi alla fine di giugno a Roma, ha richiamato l’attenzione sull’importanza del contrasto all’ISIS, affermando non solo la possibilità di aumentare le missioni NATO in Iraq, ma anche la necessità di intervenire in Africa per evitare che organizzazioni jihadiste possano proliferare e rendere il continente ancora più fragile e instabile. A questo proposito, davanti alle Commissioni di Esteri e Difesa di Camera e Senato, il Ministro della Difesa del governo italiano ha comunicato che l’Italia assumerà il comando delle missioni Nato in Iraq nel 2022.[1] Va inoltre ricordato come ora l’ISIS possa contare tra le sue fila circa diecimila uomini (un numero molto inferiore rispetto ai circa quarantamila elementi originari), e di come più di otto milioni di chilometri quadrati siano stati liberati dal controllo del califfato.[2] Per contrastare la nuova espansione del Daesh e per avviare un processo di peace-keeping efficace nelle regioni più colpite dagli scontri, non servirà solo un nuovo impiego militare da parte della Nato e degli attori regionali coinvolti, ma anche riuscire a contenere l’avanzata della pandemia per non indebolire ulteriormente l’apparato socio-economico degli stati. L’ISIS e le altre organizzazioni jihadiste come Al-Qaeda hanno sfruttato la pandemia a proprio favore cercando di radicalizzare coloro che negli stati occidentali si sono sentiti discriminati e maggiormente vulnerabili, mentre nel Medio Oriente, in Africa settentrionale e sub-sahariana, il Daesh è riuscito ad inserirsi in contesti già segnati da una forte instabilità politica e fragilità sociale. La stabilizzazione di tutti questi territori sarà necessaria per contrastare una possibile nuova espansione dell’ISIS e per annullare il rischio di nuovi attentati terroristici.
Note:[1] Ministero della Difesa, Missioni internazionali: audizione del Ministro Guerini, https://www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/Missioni-internazionali-audizione-del-Ministro-Guerini-commissioni-riunite-Esteri-e-Difesa-di-Camera-e-Senato.aspx
[2] ISPI, Blinken in Italia, il G20 scalda i motori, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/blinken-italia-il-g20-scalda-i-motori-30991
Fonti principali: “Il mondo dopo il Covid-19” Ferdinando Sanfelice di Monteforte, Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte, ed. Mursia, 2020, per quanto riguarda le azioni e le risposte da parte dell’ISIS e di Al-Qaeda alla Pandemia. “Dove l’Isis rialza la testa” di Giordano Stabile, La Stampa, 29/06/2021