Written By Redazione

di Michelangelo Cerracchio

Colonna sonora consigliata: 14 Romances, Op. 34, Sergei Rachmaninoff.

L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno ha portato ad un rapido cambio di passo nei rapporti con il Cremlino rispetto al tenero approccio di Obama e Trump nei confronti di Putin. La postura dei predecessori di Biden era volta a tendere la mano verso Mosca per evitare un’eccessiva convergenza verso Pechino, il vero peer competitor degli Stati Uniti, per poter concentrare la maggior parte delle proprie risorse nel contenimento marittimo della Cina. Evitando, così, il controllo da parte delle due potenze “revisioniste” su più della metà della massa eurasiatica. Per ovviare a quest’ultimo problema, le ultime amministrazioni americane hanno optato per un rovesciamento della diplomazia del ping-pong architettata da Nixon e Kissinger nei primi anni Settanta e volta ad ammorbidire i rapporti con la Cina per allontanare Pechino da Mosca.

La storia non si ripete ma rima, scomodando Mark Twain.

Giocare il nemico numero 2 contro il nemico numero 1 è la scelta logicamente e grammaticalmente più corretta ma quasi mai priva di rompicapi vista la nebbia di incertezza e complessità che avvolge le relazioni interstatuali. Ciò si traduce, a volte, nell’implementazione di scelte tattiche opposte ai propri obiettivi strategici: in questo caso, per la Casa Bianca, aumentare la pressione sul Cremlino per instaurare un dialogo da una posizione di vantaggio, rifiutando inizialmente il suo sostegno.

Un approccio comunque prevedibile alla luce di due fattori. Primo: la necessità di scaricare i malori della nazione al di fuori dell’impero per riconsolidarne il fronte interno, sfibrato conflitti etno-razziali e dai fatti di Capital Hill. Secondo: il bisogno di compattare gli alleati d’oltreoceano per poter contenere la Russia sulla Nuova Cortina di Ferro e affrontare la Cina nell’Indo-Pacifico senza dissanguarsi. Facendo, quindi, grande attenzione nel mantenere the Americans in, the Russians out and the Germans down, secondo l’illuminante postulato del primo segretario dell’organizzazione[1]. Infatti, le azioni americane nel Trimarium in collaborazione con i paesi Nato dell’Europa orientale, assieme all’escalation militare in Ucraina e nel Mar Nero dimostrano la propria presenza nell’area per rassicurare gli alleati e separare Berlino da Mosca, per quanto possibile.

Il perno attorno a cui tutto ruota rimane quindi il controllo del continente europeo da parte americana, garantito prima dallo sviluppo della NATO e dal processo di integrazione europea, entrambi in funzione antisovietica (e antitedesca). Diversi analisti realisti[2] hanno evidenziato che con lo scioglimento del cristallo bipolare la Nato avrebbe dovuto dissolversi come conseguenza del venir meno del nemico comune, portando a Washington un vantaggio assoluto: la riduzione del proprio fardello imperiale – il cui costo si sarebbe moltiplicato esponenzialmente in vista della percezione degli alleati di pericoli non condivisi – che avrebbe evitato a Washington una pericolosa sovraestensione, classica di ogni grande potenza conservatrice dello status quo. Imperial overstretch, per dirla più o meno all’americana. Così non è stato. Infatti, la NATO non solo è rimasta in piedi ma si è espansa verso est inglobando buona parte gli Stati dell’ex blocco sovietico perché, secondo i calcoli degli apparati americani, i costi relativi ad un suo scioglimento sarebbero stati maggiori del suo mantenimento. Tradotto: per tenere compatti i nostri alleati abbiamo bisogno di un nemico comune, e se questo non esiste più, allora dobbiamo crearlo. Inoltre, qualora la NATO si fosse sciolta, il controllo strategico del continente europeo sarebbe venuto meno e con esso la quiete che l’egemonia regionale a stelle e strisce regala ai paesi dell’emisfero occidentale e, soprattutto, agli americani stessi.

Vuoi per prossimità geografica, vuoi per l’influenza geopolitica sull’Europa orientale di cui ha sempre goduto, vuoi per l’eredità storica che incarna, la Federazione Russa è stata quindi riconfermata arcinemico storico dagli statunitensi e bollata come tale anche dagli europei, su diktat di Washington. Protego ergo obligo.

Se lo scopo di ogni alleanza militare è sempre prima difensivo, non è mai percepito come tale dal nemico da cui ci si vuole difendere. Infatti, se per Washington l’allargamento della NATO è volto alla difesa del continente europeo, Mosca lo vede come un affronto ai propri interessi vitali da sventare a qualsiasi costo. I bombardamenti NATO su Belgrado del 1999 hanno creato il precedente, colpendo uno dei territori più storicamente legati alla Russia per affinità religiosa e culturale – affinità su cui Mosca ha sempre puntato per proiettare potenza nei Balcani. Agli occhi di Putin, l’atteggiamento offensivo della NATO è confermato dalla volontà di Washington di annettere anche Georgia ed Ucraina (processo tutt’ora in stallo): questi due stati rappresentano un crocevia delle relazioni russo-statunitensi dell’ultimo decennio, il cui risultato è stato un costante slittamento della Russia verso l’Asia.

La guerra russo-georgiana del 2008 ha simboleggiato la fine del periodo in cui Mosca pensava di poter lavorare alla pari, o quasi, con Washington, aprendo la fase di forte contrapposizione con l’Occidente e di iniziale slittamento verso Oriente[3]. Secondo un sondaggio del Centro Levada, nel 2008 il 52% dei russi riteneva europeo il proprio paese mentre il 36% non lo considerava tale. Nel 2021, invece, solo 29% dei russi si percepiscono europei a fronte del 64% che non si percepiscono come tali.

Non stupisce, quindi, l’affermazione di Sergei Karaganov, capo del consiglio di politica estera e di sicurezza russo, quando nel 2012 sostenne che la Russia dovrebbe aver avuto tre capitali: Mosca come centro politico, militare e diplomatico; San Pietroburgo come centro culturale; e la città portuale di Vladivostok sul Pacifico come il nuovo centro economico. Sei anni più tardi, non a caso, Putin ha decretato la rilocalizzazione del capoluogo nel Distretto Federale Estremo-orientale da Khabarovsk a Vladivostok.

Gli effetti del conflitto transcaucasico sono stati moltiplicati dalla crisi in Ucraina. Mantenere Tbilisi e Kiev fuori dalla NATO è fondamentale per il Cremlino per sfuggire al senso di soffocamento che caratterizza la sua politica estera da secoli nella ricerca di uno sbocco verso i mari caldi (mentre oggigiorno a Mosca strizzano l’occhio al riscaldamento globale che permetterebbe la navigazione delle fredde acque artiche durante tutto l’anno).

Declinazione politico-strategica di questa strategia è l’assertività russa nello spazio euro-mediterraneo che porta Mosca a: mantenere il Mar Nero disputato a suon di esercitazioni; contrastare con ogni mezzo la possibilità che gli unici stati litoranei rimasti fuori dalla NATO entrino a farne parte (Georgia e Ucraina); controllare territori strategicamente e culturalmente imprescindibili a ridosso dei propri confini (Transnistria[4], Abkhazia e Ossezia dal Sud dal 2008, Crimea e Donbass dal 2014); flirtare con la Turchia per non essere tagliata fuori dai Dardanelli; mostrare i muscoli in Nord Africa e in Medio Oriente per proiettare potenza nel bacino mediterraneo.

Derivante dallo slavo antico orientale u okraina (“vicino alla periferia”), il toponimo Ucraina rispecchia la visione moscovita dei territori del bassopiano sarmatico. Infatti, non solo interdire all’Ucraina lo sbocco al mare garantisce un controllo migliore sulla Crimea, ma tenere Kiev impegnata nel Donbass serve a mantenere il cuscinetto di difesa che separa la Russia dalla Nato.  A dimostrazione della percezione offensiva della NATO e di come Mosca vorrebbe parlare alla pari con gli Washington, non stupisce che durante l’escalation di aprile il Cremlino avrebbe tollerato la mobilitazione in supporto a Kiev di soldati americani ma non NATO. L’Ucraina è cruciale perché rimane l’ultimo confine poroso della nuova cortina di ferro, sorretta a sud dalla Transnistria e a nord ben consolidata sul confine finlandese e dei paesi baltici con Russia e Bielorussia. Anche alla luce del suo calibro culturale e identitario[5], l’Ucraina è e rimane terra contesa in quanto territorio strategicamente imprescindibile per la fase di contrapposizione con l’occidente.

A segnalare la disponibilità da parte Russa di dialogare, dopo la prova di forza di aprile, è stato il ritiro delle truppe dal confine col Donbass annunciato appena pochi minuti prima la partecipazione di Putin al vertice sul clima voluto da Biden. Tuttavia, il materiale bellico mobilitato rimarrà in loco per le prossime esercitazioni in autunno. Non a caso, in risposta all’operazione Defender Europe 2021, il ministro della difesa russo Sergei Shoigu ha annunciato lo schieramento di venti nuove unità nel Distretto militare occidentale confinante con Paesi baltici, Bielorussia e Ucraina che rimarranno posizionate fino all’autunno.

La distensione delle relazioni russo-americane è fondamentale per Washington per chiedere alla Russia di staccarsi dalla Cina. Affinché ciò accada, il via libera alla Germania per terminare i lavori del gasdotto Nordstream 2, che duplicherebbe l’apporto di gas dalla Russia all’Europa estromettendo i paesi del bassopiano sarmatico, è soltanto la prima di una serie di contropartite che gli Stati Uniti dovranno concedere alla Russia. Il fatto che Biden abbia congelato le sanzioni contro il gasdotto proprio nel giorno in cui è stato fissato l’incontro con Putin conferma la volontà di Washington di dialogare con Mosca e prepara il terreno per il loro incontro previsto per il 16 giugno a Ginevra.

Note:

[1] Alberto de Sanctis, Per le truppe usa l’europa di mezzo è di nuovo centrale in Antieuropa, l’impero europeo dell’America, Limes 4/2019. Fra il 1952 e il 1957, il primo segretario generale dell’Alleanza è stato Lord Hastings Lionel Ismay, rinomato stratega dell’impero britannico.

[2] Tra tutti, Kenneth Waltz, Structural Realism after the Cold War, International Security 25/1.

[3] Federico Petroni, Il mondo oggi del 22/03/2021, Limes.

[4]Nel 2014 la Transnistria ha chiesto l’adesione alla Federazione Russa in seguito alla secessione della Crimea dall´Ucraina.

[5] La popolazione dell’attuale Ucraina è stata la prima ad identificarsi come Rus’ con la creazione del Rus’ di Kiev (IX secolo), che comprendeva gli attuali territori dell’Ucraina, Bielorussia, Paesi Baltici e Russia occidentale. A seguito dell’invasione dell’Orda d’oro di Gengis Khan (XIII secolo), Kiev non si riprese dalla devastazione e soggiogazione mongola, mentre la repubblica di Novgorod continuò a prosperare e Mosca diventò il principale punto di riferimento.

Foto in evidenza: World Affair Council.

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