Con questo primo articolo di Andrea Stucchi inauguriamo la rubrica EliSIR, curata mensilmente da SIR – Students for International Relations su Vulcano Statale.
Lo scorso 20 maggio, grazie alla mediazione egiziana, è stato raggiunto il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, ponendo fine a quasi due settimane di bombardamenti. Purtroppo si tratta solamente di una tregua temporanea poiché, come 73 anni di esistenza dello Stato di Israele ci dimostrano, la violenza in questi luoghi può essere considerata endemica.
I recenti scontri però mostrano alcuni tratti di novità: oltre al contesto regionale in cambiamento e al nuovo approccio con cui gli attori esterni – Stati Uniti, Turchia, Egitto, Iran – guardano la questione palestinese, l’elemento più rilevante è la violenza scoppiata all’interno dello stato di Israele, tra la maggioranza ebrea e la minoranza araba. Infatti, piuttosto che affrontare militarmente un altro stato – o, come in questo caso, un’organizzazione che pretende di rappresentare la popolazione di Gaza – Israele si è ritrovata a fronteggiare un nemico interno, parte della sua stessa popolazione, per quanto considerata di seconda classe e costretta ad affrontare un’apartheid ufficiosa. Nonostante questi episodi si siano già verificati in passato, raggiungono ora dimensioni ben più notevoli e, piuttosto che essere un caso isolato, sono paradigmatici delle nuove forme che la guerra sta assumendo – anzi, che ha già assunto da tempo – non solo in Israele ma in tutto il resto del mondo.
Lo spartiacque tra le vecchie e le nuove forme belliche fu la Seconda Guerra Mondiale: i bombardamenti strategici – prima da parte dei nazisti sulle città inglesi, poi, ancora più massicciamente, degli Alleati sulle città tedesche – e i movimenti di resistenza partigiana fecero vacillare la distinzione tra civili e combattenti alla base del diritto umanitario, quella branca del diritto internazionale che si occupa della condotta della guerra. Nel corso della cosiddetta Guerra Fredda, mentre l’Europa osservava con timore le minacce reciproche di un attacco nucleare da parte delle due superpotenze, il resto del mondo veniva scosso da queste nuove forme di violenza, declinate nei movimenti di liberazione nazionale delle colonie europee in Africa e in Asia. Con il crollo del blocco socialista tali violenze hanno assunto forme ancora più spregiudicate, come il terrorismo religioso e i conflitti etnici.
In particolare, il caso più rappresentativo fu quello della guerra in Bosnia Erzegovina dei primi anni ‘90. Il tratto distintivo di questa guerra, nata con il collasso della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, fu il fatto che la violenza non coinvolse direttamente una Repubblica contro l’altra, ma le stesse contro la popolazione civile – in particolare la Serbia contro croati e bosniaci, ma anche la Croazia contro serbi e bosniaci – con l’intento di creare delle zone etnicamente omogenee tramite operazioni di pulizia etnica per la spartizione del potere federale. Le classi dirigenti delle neonate repubbliche amplificarono abilmente le divisioni etniche in una società che, almeno fino alla morte di Tito (1982) e soprattutto nella variegata Bosnia, era rimasta secolare e multietnica.
E il fatto che più di tutti gli altri contribuì alla perpetrazione della violenza fu che la comunità internazionale, intestatasi la risoluzione del conflitto, interpretò gli avvenimenti come una guerra convenzionale: non essendo preparati né disposti ad affrontare queste nuove minacce, NATO e Nazioni Unite, piuttosto che difendere attivamente i civili, si concentrarono sulla sconfitta militare delle parti.
Queste guerre vengono definite con nomi diversi, come low-intensity conflict, hybrid warfare o nuove guerree hanno assunto, nel corso del secondo dopoguerra e oltre, diverse forme, tra cui terrorismo, guerre di liberazione nazionale, conflitti etnici, guerriglia.
Nonostante la loro eterogeneità, presentano alcuni tratti comuni: nascono solitamente in contesti di scarsa presenza statuale; almeno un belligerante non è un esercito regolare ma un gruppo paramilitare, un’organizzazione terroristica, un fronte di liberazione nazionale; vengono condotte con armamenti poco costosi e complessi; hanno poco riguardo per gli attributi classici della statualità, in particolare i confini territoriali; esagerano le divisioni etniche, religiose, politiche interne alla società tramite delle etichette create ad hoc; nelle forme più recenti, sfruttano le reti transnazionali tipiche della globalizzazione per ottenere supporto politico, economico e militare; stabiliscono un’economia di guerra molto profittevole che contribuisce alla perpetuazione della violenza.
Nonostante quello che si pensi, queste nuove guerre non sono presenti solo in angoli remoti del pianeta ma anche nel cosiddetto mondo civilizzato, in forme più o meno originali. Si pensi ad esempio al terrorismo in Italia negli anni ‘70, nato dalla crescente insoddisfazione di frange estremiste rispetto all’establishment politico, o i troubles in Irlanda del Nord, durati trent’anni e non ancora sopiti, poiché figli di una divisione etnica – e non tanto religiosa – con radici profonde.
Se guardiamo invece al panorama attuale, due casi sono di particolare interesse.
Per primo, in Francia, la lettera che alcuni generali e altri militari dell’esercito francese hanno indirizzato a Macron tramite il giornale conservatore Valeurs Actuelles, in cui mettono in guardia il Presidente della Repubblica dal pericolo islamista, in risposta al quale, di fronte all’inattivismo della classe dirigente, potrebbero vedersi costretti a combattere una «guerra razziale». Lasciando da parte il radicalismo dei militari transalpini, ciò che è degno di nota è il fatto che venga utilizzato proprio il termine guerre per definire l’imminente lotta che secondo loro bisognerà combattere contro la «disintegrazione della società», contro «l’estremismo e le orde delle banlieu».
Il pericolo di una crescente spaccatura all’interno della società francese si era già palesato con gli attacchi terroristici degli scorsi anni, come quello alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo nel 2015. La Francia continua inoltre a condurre operazioni di counter-terrorism nel Sahel, per evitare che altri gruppi fondamentalisti si avvicinino all’Esagono, ma la radicalizzazione di certe frange della società – soprattutto immigrati di seconda generazione – nasce soprattutto da povertà ed emarginazione sociale, dal fallimento delle politiche di integrazione.
Combattere una vera e propria guerra contro parte della propria popolazione – come ci dimostra la storia delle nuove guerre – non è certamente una soluzione adeguata, tanto che i militari saranno processati di fronte ad un tribunale militare.
Anche dagli Stati Uniti arrivano segnali di destabilizzazione, esplosi ad inizio anno con l’assalto a Capitol Hill, sede del Congresso americano. Fomentati dall’ex Presidente Donald Trump e da vari gruppi cospirazionisti come QAnon, una buona parte di coloro che si intestano la rappresentanza della vera America, provenienti dal Sud e dal Midwest, si sono rivoltati contro il risultato delle elezioni presidenziali, secondo loro truccate. Ma evidenziano un malessere diffuso nella società statunitense: il cuore degli Stati Uniti WASP – white anglo-saxon protestant – si sente trascurato, povero, emarginato di fronte al privilegio delle coste. E non è da escludere che, se le loro istanze non verranno ascoltate, possano iniziare una vera e propria guerra civile, o per lo meno portare la violenza nelle strade.
D’altra parte, anche la popolazione nera, riunita attorno allo slogan “black lives matter”, sembra non riuscire più a contenere il proprio malessere, frutto di oltre duecento anni di schiavismo, segregazione, pregiudizi e omicidi, per ultimo quello di George Floyd.
In entrambi i casi una risposta violenta da parte delle forze dell’ordine sarebbe di corto respiro e potrebbe anzi polarizzare ancora di più la società. E se gli Stati Uniti hanno la possibilità di sfogare all’estero il malessere interno per compattare la popolazione attorno alla bandiera (rally around the flag), il resto del mondo non ha questo privilegio.
Insomma, la guerra ha cambiato forma. Questo non vuol dire, come sostengono i detrattori dello stato o i teorici della “fine della storia”, che stiamo andando verso un nuovo sistema internazionale, in cui i popoli non afferiscono più ad uno stato nazionale ma a identità particolaristiche o globali. Stiamo però affrontando un periodo di profonda crisi, che presuppone profondi cambiamenti: prima di tutto una nuova mentalità, un nuovo modo di affrontare la guerra. Paradossalmente, ciò comporta una forte risposta statuale, da parte di quegli stati che se lo possono permettere. Gli altri sono destinati a soccombere.