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di Riccardo Arcobello Nel luglio del 2012, durante quello che è probabilmente il suo discorso più famoso, Mario Draghi in qualità di governatore della BCE mostrava all’Europa e al mondo la sua doppia dimensione. In piena crisi dell’Eurozona e con i mercati finanziari in subbuglio, l’economista Draghi affermava che la BCE avrebbe fatto “whatever it takes” per preservare la moneta unica europea dalle speculazioni, mentre il politico Draghi avvisava: “believe me, it will be enough”. Da quel momento in poi, ad ogni crisi istituzionale italiana (e non solo) la sua figura è divenuta la più ricercata e il suo eloquio il più atteso. E dunque, in preda ad una crisi totale del funzionamento dello stato italiano, lo scorso febbraio il Presidente della Repubblica si è affidato all’uomo politico Draghi per portare l’Italia fuori dalla crisi. Una decisione che ha fatto il giro del mondo, tra chi si è mostrato entusiasta per il nuovo corso italiano e chi preoccupato per una leadership così forte e influente. “Mario Draghi è la persona migliore per il lavoro peggiore: governare l’Italia” titolava il sito d’informazione Bloomberg, evidenziando come venisse chiesto ad un uomo solo – ed uno soltanto – di risolvere una crisi strutturale e decennale dello stato italiano. Un’impresa titanica, probabilmente impossibile, la quale solo a Mister Europe[1] poteva essere affidata.

Al netto del fatto che solo una società dominata da estrema fragilità possa invaghirsi così facilmente di una leadership, è importante tenere in considerazione i vari ruoli incarnati nella carriera di Draghi – economista, accademico, banchiere – i quali aiutano a costruire la visione geopolitica del nuovo esecutivo italiano, oltre ovviamente a quella economica. Come anticipato nel discorso in Senato durante i giorni dell’insediamento a Palazzo Chigi, la politica estera italiana sotto il governo Draghi incarna tre valori fondamentali: europeismo, atlantismo ed efficiente multilateralismo[2]. E quindi, rafforzamento dell’asse politico e di sicurezza con gli Stati Uniti e integrazione politica europea nel solco delle grandi democrazie occidentali e dell’imprescindibilità dello stato di diritto. Poiché l’alleanza atlantica ha garantito “benessere, sicurezza e prestigio”, mentre “l’irreversibilità della scelta dell’euro” lascia spazio a prospettive future di “un bilancio pubblico comune”. Un messaggio chiaro e diretto a tutti coloro che guardano ad alleanze geopolitiche alternative ed a coloro che ambiscono ad una mutazione autarchica dello stato italiano: “non c’è sovranità nella solitudine”. Allo stesso tempo, il governo Draghi si è posto in forte contrasto – seppur rimanendo aperto al dialogo – con la potenza russa oltre a quella cinese, assecondando Washington dopo anni travagliati. Tuttavia, ciò non implica che gli Stati Uniti approvino del tutto l’attuale progetto politico italiano: una eventuale unione fiscale a livello europeo, seppur ad oggi sia quantomeno utopistica, non sarebbe gradita agli apparati americani. Così come, in campo europeo, si registra una rinnovata preoccupazione di Germania e Francia nei confronti di Roma, mostrando come la nuova leadership italiana non sia stata accolta solo da elogi e dichiarazioni di facciata.

In merito alla prima visita internazionale del nuovo Presidente del Consiglio, si ribadisce come il dossier più caldo e cruciale per la politica estera italiana sia ancora la Libia: l’obiettivo di Draghi è rilanciare il ruolo italiano nella competizione libica e nel Mediterraneo. Il predominio turco nell’area della Tripolitania e quello russo in Cirenaica complicano notevolmente il ruolo regionale che potrebbe interpretare Roma, considerando come l’Italia non abbia una storia recente fatta di battaglie (tantomeno vittoriose) e sia sempre restia ad impugnare le armi in favore piuttosto di dialogo e trattative lontane dai riflettori: un approccio gracile quando gli interlocutori sono Putin ed Erdogan. Malgrado numerosi fattori sfavorevoli, Draghi è consapevole che per l’Italia sia fondamentale prendere parte al processo di pacificazione libico e alla strategia economica di rilancio commerciale: il riavvicinamento con Parigi e Berlino sul dossier in questione si spiega anche in quest’ottica[3]. Nondimeno le preoccupazioni europee derivano dal rapporto con Ankara e dal ruolo che quest’ultima ricopre in Libia in riferimento ai giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Infatti, l’intervento militare turco ambisce – con annessa occupazione di basi militari nella regione – alla ridefinizione dei confini marittimi in una zona di mare strategica per quanto concerne la competizione energetica. Senza dimenticare peraltro le mire imperialistiche turche e la congiunta sfrontatezza d’azione, Draghi è consapevole di come la sua figura sia determinante per cambiare il corso degli eventi in favore europeo. Perché la recente visita ad Ankara di Von der Leyen e Michel in nome del dialogo e del desiderio di una de-escalation sui dossier in comune, mette in luce una debolezza europea che il Sultano sfrutta a suo favore. Al di là dell’aspetto comunicativo del cosiddetto “sofagate”, emerge che i due rappresentanti dell’Unione si trovavano ad Ankara per questioni legate alla gestione e al contenimento dei flussi migratori, ovvero il grande elemento ricattatorio che la Turchia può sfruttare a proprio favore da qualche anno a questa parte. Le successive dichiarazioni di Draghi in conferenza stampa, seppur da taluni considerate una gaffe e quindi involontarie, si spiegano proprio nel segno di un rapporto ambivalente: Draghi ha sottolineato come in nome degli interessi nazionali si debba essere “pronti a cooperare” con questi “dittatori” (l’uso del plurale sottintende un riferimento anche ad altri leader mondiali, come ad esempio Putin). Per quanto queste parole possano apparire di poco conto, è significativo constatare che oltre al Presidente italiano pressoché nessuno – in ambito di istituzioni italiane ed europee – abbia mai avuto l’insolenza di apostrofare in certi termini il condottiero turco.

In sintesi, lo scacchiere in cui il politico Draghi si trova a muovere le proprie limitate pedine è composto da anguste zone d’ombra. Egli è ben conscio di aver preso tra le mani uno stato sull’orlo del baratro da un punto di vista socio-economico e assente sul piano geopolitico, al quale si aggiungono le note carenze europee e il cinismo di altri players internazionali. Anche per questo l’autorevolezza, l’abilità e la scaltrezza dell’uomo totale Draghi sono state virtù accolte favorevolmente dall’opinione pubblica e da quella parte di Italia ed Unione Europea che ancora aspira ad un rilancio economico e geopolitico di lungo periodo. Se da un lato Palazzo Chigi non appare intenzionata a sforare dal perimetro europeo, in egual maniera si rende conto che per riesumare il Bel Paese è necessario rinnovare l’organizzazione e la strategia comune europea, poiché senza i principali partner europei Roma difficilmente sarà in grado di risorgere dalle proprie ceneri. Un compito gravoso, per certi versi illusorio, ma che può spiegare parzialmente la ventata di fascinazione generale verso l’avvento di Draghi alla guida dell’Italia. Un uomo solo al comando, l’uomo del destino, l’ultima fiamma di speranza. Colui che viene chiamato a risolvere problemi storici, ad evitare il collasso e a rinnovare meccanismi lugubri, come se un uomo soltanto possa cambiare il corso della storia. La chimera italiana allo scontro con la realtà: che sia l’uomo della provvidenza allora, whatever it takes.

[1] https://www.limesonline.com/whatever-it-takes-mario-draghi-signore-deuropa/76544

[2] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/draghi-e-la-politica-estera-dellitalia-29339

[3] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-visita-di-draghi-libia-29901

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