di Riccardo Arcobello Fin dalla sua nascita, il progetto di unificazione del continente europeo a ispirazione federale è stato costellato da un lato da profondo scetticismo, dall’altro da robusta ambizione. Ma al di là di desideri e aspirazioni personali, il processo di costruzione di una entità europea sovranazionale si presenta oggi assai fragile: il ruolo internazionale dell’Unione rimane debole, ben al di sotto delle aspettative dei padri fondatori del sogno europeo. Non solo essa non è dotata di capacità e risorse per condurre azioni militari, né a livello regionale né tantomeno su scala globale, ma è innanzitutto manchevole di una strategia lineare, efficace e condivisa da tutti gli stati membri. Tutto ciò si evince dalla posizione occupata da ogni stato nelle varie crisi di cui il sistema internazionale è sempre stato colmo. Basti pensare che i tre pilastri fondamentali dell’Unione – ovvero Germania, Francia e Italia – abbiano volontà divergenti e conseguentemente tattiche e strategie altrettanto differenti (la questione libica tra le partite più attuali), al punto che una qualsiasi azione comune risulti in partenza poco credibile agli occhi di altri attori internazionali. Inoltre, la politica estera e di sicurezza comune (PESC) istituita nel 1993 presenta connotati a tratti mitologici, dovuti dalla propria inconsistenza e dall’aleatorietà dei propri incarichi. La politica estera rimane saldamente nelle mani dei singoli stati, i quali però risultano incapaci di affermarsi nello scacchiere internazionale: chi per cause storiche e di un’eredità troppo pesante (Germania) o chi per ottusità economicista e miopia geopolitica (Italia).
In uno scenario a tratti drammatico, si sviluppa la nuova partita geopolitica mondiale sul piano sanitario. Lo scontro globale sui vaccini anti-Covid è un grande “gioco” nel quale – come ovvio che sia – ogni colpo è lecito: accuse reciproche, soft power misto a propaganda, blocchi alle esportazioni e minacce variabili. Tutto ciò non può stupire, poiché dai vaccini dipendono la salute dei popoli e quindi la ripresa economica e – ancora – gli esiti elettorali. Ma non solo, dal punto di vista delle grandi potenze dipende anche – o meglio, soprattutto – l’egemonia globale. E proprio analizzando l’attualità in termini di potenza è possibile comprendere la debolezza europea nella campagna vaccinale. Lo status di grande potenza è ciò che più conta nella corsa al vaccino: infatti, al di là di piccoli stati dotati di maggiore libertà e versatilità nell’acquisto di vaccini di varia provenienza (come ad esempio la Serbia), la mole della potenza è il fattore determinante. Quest’ultima ha rappresentato il discrimine tra il successo di alcuni (Stati Uniti, Regno Unito) e il fallimento di molti altri (Unione Europea). A tal proposito, ormai più di un anno fa è cominciata la ricerca scientifica per produrre un vaccino in tempi brevi e la coppia Pfizer-Biontech è riuscita a raggiungere il traguardo prima di chiunque altro. La peculiarità più rilevante in un’accezione geopolitica è individuabile nelle trattative tra i governi e le case farmaceutiche. Se da un lato l’americana Pfizer ha rifiutato da parte dell’allora amministrazione Trump ogni forma di sussidio statale alla ricerca, viceversa la tedesca Biontech ha ricevuto fondi dal governo tedesco e dall’Unione stessa. Eppure, a vaccino ultimato, Pfizer e Biontech hanno deciso di rivolgersi in prima istanza alla Food and Drug Administration (FDA), ovvero all’ente governativo americano sotto la supervisione di Washington che è sostanzialmente il corrispettivo dell’EMA per l’Unione Europea. Questa scelta porta alla luce, come anticipato, quello che è il fulcro di ogni contesa geopolitica che in questo caso si declina nell’accaparramento vaccinale: la potenza. Nel caso appena citato, quindi, da un lato si trova il governo della più grande potenza mondiale e dall’altro il governo di nessuno, ovvero la Commissione Europea. Quest’ultima dovrebbe rappresentare l’organo esecutivo dell’UE, sebbene – per scelta consapevole e volontaria dei singoli stati – essa abbia de facto poteri decisionali alquanto limitati, in favore piuttosto delle decisioni prese dal Consiglio composto dai vari capi di stato. Il tentativo da parte della Commissione di intestarsi il ruolo di negoziatrice per l’acquisto di vaccini è fallito – sia per quanto riguarda la manifestazione di potenza sia in merito alla disponibilità economica nei pagamenti – privando da un lato i cittadini europei di una quantità di vaccini adeguata alle proprie esigenze e contemporaneamente palesando – qualora non fosse già abbastanza chiaro – la propria immaturità gestionale e decisionale.
A tutta questa serie di problematiche se ne aggiunge una ulteriore: la collocazione geopolitica europea. Dando per assodato che, nonostante tutto, il continente europeo rimane un alleato molto importante e strategico per gli Stati Uniti, è comprensibile come Washington non abbia gradito una serie di atteggiamenti da parte europea, rea di aver più volte “amoreggiato” con il governo russo e, soprattutto, il governo cinese. Dall’altra parte dell’Atlantico non è passata inosservata la passerella dei militari russi di circa un anno fa, quando il governo italiano aveva concesso a Mosca di entrare in territorio lombardo per studiare il virus nei luoghi dei primi focolai; allo stesso modo non sono passate inosservate le trattative commerciali condotte con Pechino negli ultimi anni e, ancora, la facilità con cui il soft power cinese sui dispositivi sanitari abbia fatto breccia nei cuori europei. Anche da questi elementi deriva una forte pressione americana sull’Unione Europea – o meglio, sui governi degli stati membri – in merito all’eventuale utilizzo del vaccino russo Sputnik. Se la narrativa dello “stato salvatore” portata avanti da Putin in alcuni paesi poveri (e poco rilevanti) non scalfisce più di tanto Washington, la potenza americana non può tuttavia accettare che la stessa cosa avvenga anche nel continente europeo.
È necessario quindi osservare con lungimiranza alla geopolitica dei vaccini, poiché da essa derivano risultati che vanno oltre il breve periodo. L’Unione Europea, le sue istituzioni ed i suoi stati membri non sembrano comprendere come ciò che può essere un vantaggio nell’immediato potrebbe non esserlo in futuro. Inoltre, non sembrano nemmeno interessati a diventare attori geopolitici rilevanti, come se la protezione americana – più volte svilita da sovente ingratitudine – possa durare per sempre. In attesa di un risveglio collettivo degli apparati decisionali europei e della costruzione di una strategia chiara nel lungo periodo, è bene che l’Europa comprenda un aspetto di vitale importanza: gli attori internazionali, le potenze o chi aspira a diventarlo, osservano con attenzione gli eventi nel vecchio continente. I recenti blocchi (scientificamente ingiustificati) alle somministrazioni vaccinali di AstraZeneca e Johnson&Johnson sono un ulteriore sintomo di una fragilità europea evidente in tutto il globo. I governi degli altri paesi, anzitutto quelli non particolarmente amici dell’Europa, bramano nell’ombra e assaporano la raccolta di un frutto assai prelibato: un continente ricco e anziano, il quale ha paura delle sue stesse ombre e teme la morte più di ogni altra cosa, un continente che ricerca il rischio zero e in cui i propri leader appaiano inabili ad una inversione di rotta.