di Gabriele Loiodice Agli occhi dell’opinione pubblica e di molti studiosi, la globalizzazione sembra essere un fattore irreversibile, al disopra dell’azione dell’uomo e più specificatamente dei governi, l’apice di un continuo progresso del pensiero umano e della tecnologia che, dal secolo dell’illuminismo ad oggi, ha portato a un diffuso livello di benessere nella società occidentale e ad un miglioramento delle condizioni di vita in tutto il mondo. Il sistema internazionale viene di conseguenza considerato multipolare, in cui le nazioni spesso collaborano sotto l’egida delle Nazioni Unite, le quali promuovono i valori liberali che costituiscono il perno della globalizzazione.

Gli Stati Uniti d’America sono quasi unitamente riconosciuti come i principali promotori di questo sistema internazionale “ordinato”: il loro intervento è stato essenziale per porre fine a ben due guerre mondiali, ponendo le basi delle istituzioni che oggi rappresentano il sistema internazionale globalizzato, come l’ONU, l’FMI e il WTO. La vittoria statunitense nella Guerra Fredda ha permesso infine alla globalizzazione di plasmarsi nella forma che oggi conosciamo. Spesso, gli Stati Uniti sono descritti come promotori della globalizzazione, ma non per ciò che sono realmente, ossia i padroni di tale fenomeno. Il termine “globale” si riferisce all’ambito di applicazione della proiezione di potenza degli Stati Uniti, non a un dominio condiviso del sistema internazionale, il quale rimane saldamente a guida statunitense, con l’aiuto dei suoi alleati occidentali e occidentalizzati nel mondo.

Per comprendere l’odierno sistema internazionale e quindi la globalizzazione, la quale costituisce esclusivamente l’aspetto socioeconomico di tale sistema, è necessario riconoscere la natura profondamente marittima della globalizzazione stessa, partendo dalla teoria del potere marittimo, chiamato nella letteratura anglosassone Sea Power. Il termine fu coniato nel 1890 grazie all’opera intitolata “The Influence of Sea Power upon History, 1660-1783” dell’ammiraglio e storico statunitense Alfred Thayer Mahan, diventato il punto di riferimento della corrente navalista della geopolitica. Tali studiosi sostengono che il sistema internazionale sia retto dalle grandi potenze che hanno il controllo degli oceani, a discapito delle potenze continentali, ossia quelle potenze che basano il proprio potere sul dominio delle masse continentali. Diverse potenze offrono un valido sostegno a questa teoria: basti pensare al Portogallo, alla Spagna, all’Olanda e più recentemente all’Impero britannico e agli Stati Uniti, suoi successori. Questi Stati, in epoche diverse, hanno aspirato a diventare grandi potenze, riuscendoci grazie al dominio degli oceani, garantito dal controllo delle rotte commerciali tramite il possesso di particolari punti del sistema internazionale, chiamati choke points. Si tratta di stretti, canali e isole -come Gibilterra, Suez, Panama, Malacca e Tsushima- che costituiscono dei passaggi obbligati per i commerci marittimi, i quali rimangono da secoli il principale mezzo di scambio. Oggi gli Stati Uniti possiedono il controllo di tutti i choke points del globo, direttamente o tramite i propri alleati.

Il ruolo centrale ricoperto dal commercio è spiegato dall’ideologia liberale dei Paesi anglosassoni in cui le teorie navaliste sono radicate. Il commercio veniva visto dai liberali come la principale causa di benessere per i privati e per i governi e lo Stato stesso doveva impegnarsi per garantire la libertà di navigazione e la sicurezza delle rotte. I valori commerciali associati al potere marittimo sono i valori prodotti dai mercanti che hanno benessere e potere politico per difenderlo e svilupparlo. Le idee che incoraggiano il commercio furono per prime la libertà d’informazione e quindi di opinione, la necessità di un governo aperto e reattivo, equa tassazione, ossia tutti i valori liberali.

Secondo lo storico navale britannico Geoffrey Till, l’efficacia e l’apparente economicità in termini di costi del potere marittimo si deve agli attributi stessi del mare, il cui migliore utilizzo economico e strategico costituisce l’approccio marittimo. Il dominio del sistema internazionale attraverso il controllo degli oceani e dei commerci, porta a un predominio economico che non comporta né il controllo politico né quello territoriale di altri Stati, quindi le potenze marittime generalmente tendono a non intraprendere dispendiose e lunghe campagne di conquista terrestre. Vengono inoltre reputate meno minacciose, rispetto alle potenze continentali. Il declino della potenza marittima britannica coincide, infatti, con il coinvolgimento dell’Impero britannico nei due conflitti su larga scala avvenuti sul continente europeo nel 1914 e nel 1939.

Non viviamo dunque durante la prima era globalizzata della storia, è avvenuto il passaggio del dominio del sistema internazionale da un attore ad un altro che condivide gli stessi valori e la stessa cultura, quella liberale. Come scrive Walter Russell Mead: “il sistema mondiale oggi gestito dagli Stati Uniti conserva la maggior parte delle caratteristiche principali del sistema britannico che esisteva prima della Seconda guerra mondiale: un ordine liberale, marittimo, internazionale che promuove il libero flusso di capitali e merci e lo sviluppo dell’economia, di istituzioni e di valori politici liberali” (Mead, 2007).

La globalizzazione basata sul mare è potenzialmente vulnerabile a una serie di fattori, come già ravvisava Mahan affermando che “con il vasto aumento della rapidità nelle comunicazioni, si son moltiplicati e rafforzati i legami, unendo gli interessi delle nazioni l’uno all’altro, al punto che ora il tutto forma un sistema articolato non solo di dimensioni e attività prodigiose, ma di eccessiva sensibilità, ineguagliabile nelle epoche precedenti” (Mahan, 1908). L’eccessiva sensibilità a cui Mahan si riferisce, deriva dal fatto che l’interdipendenza inevitabilmente produce molteplici vulnerabilità. Dal momento che le minacce al sistema si stanno anch’esse globalizzando, un evento dirompente può avvenire non esclusivamente a causa di un attore statuale. La paura riguarda ciò che viene chiamato “rischio sistemico”, ossia una ramificazione globale di minacce alla sicurezza o l’innesco di una concatenazione di conseguenze a partire da un singolo evento, come può essere un disastro naturale o una pandemia. Il livello di potenziale minaccia e la continua possibilità di isteresi, ossia l’incapacità del sistema di recuperare il proprio equilibrio dopo uno sconvolgimento di qualsiasi tipo, portano alcuni studiosi a concludere che la globalizzazione potrebbe rivelarsi un momento passeggero nel normale ordine internazionale basato sullo Stato. A tal proposito, Jeffry Frieden scrisse: “come un centinaio di anni fa, molte persone danno ora per scontata un’economia mondiale integrata, la considerano lo stato naturale delle cose e si aspettano che duri per sempre. Eppure, le basi su cui il capitalismo globale si posa oggi non sono molto diverse da quelle che erano nel 1900 e il potenziale per la loro distruzione è presente oggi come lo era allora. L’apparente stabilità dei primi del Novecento fu seguita da decadi di conflitti e sconvolgimenti. Anche l’ordine economico internazionale odierno sembra sicuro, ma in una prospettiva storica può essere solo un breve intermezzo” (Frieden, 2007).

Fonti: Frieden, J., Global Capitalism: Its Fall and Rise in the Twentieth Century, New York 2007; Limes – rivista italiana di geopolitica; Mahan, A.T., The Influence of Sea Power upon History, 1660-1783 (1890), New York 1987; Mahan, A.T., Consideration Governing the Disposition of Navies in Retrospect and Prospect: Studies in International Relations, Naval and Political, Boston 1908; Modelski, G., Thompson, W., Seapower in Global Politics 1494-1993, Seattle 1998; Naval War College Review; Till, G., Seapower: a Guide for the Twenty-first Century (2001), New York 2018

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