di Rocco Siclari Nell’ultimo decennio, i Balcani occidentali sembrano essere intrappolati in un trend discendente per quanto riguarda la qualità della democrazia. Ognuno degli stati gode di uno status di paese candidato (Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) o di potenziale candidato (Bosnia-Erzegovina e Kosovo) per l’adesione all’Unione Europea. Di conseguenza, questi sei stati d’oltre Adriatico potrebbero diventare in futuro i prossimi membri dell’Unione. Ma sono davvero pronti per entrarci? E come mai nonostante l’aumento delle interazioni con l’Unione, il prospetto di adesione e una conformità sempre maggiore alla normativa UE, la regione si allontana dalla soglia minima di qualità democratica invece di avvicinarsi? C’è forse qualcosa di sbagliato?[1]
L’adesione all’Ue avviene attraverso uno strumento chiamato condizionalità. Questo regime si riferisce a una strategia dell’UE nella quale vengono stabilite delle condizioni a cui gli stati non membri devono sottostare allo scopo di ottenere ricompense comunitarie quali l’assistenza economica (e non) e l’adesione all’Unione, una volta soddisfatte tutte le condizioni (detti “capitoli”)[2]. La ragione della sua fama è il successo nel round di adesioni che ha coinvolto diversi paesi dell’Europa centrale e orientale dal 2004 al 2007 (Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovenia, Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca, Ungheria, e Cipro nel 2004, Bulgaria e Romania nel 2007) e che ha effettivamente contribuito alla liberalizzazione della regione.
La domanda da porsi ora è se la stessa strategia possa essere altrettanto efficace nel promuovere lo sviluppo democratico (e di conseguenza l’adesione all’UE) anche per i Balcani occidentali, i quali differiscono significativamente dai paesi dell’Europa centrale per la presenza di profonde divisioni etniche. Quando l’identità nazionale entra in gioco, i calcoli costi-benefici fatti dai governi nel decidere se procedere o meno sulla strada della condizionalità sono fuorvianti. Potremmo fare l’esempio della Croazia: dopo i grandi cambiamenti post-2000 (a seguito della morte del leader autoritario Franjo Tudjman), le successive politiche governative furono orientate sul riformismo, cosa che generò un consenso quasi totale per l’adesione all’UE. Si potrebbe dire che questo fosse un ottimo punto di partenza per l’applicazione della condizionalità. Ma alla fine, un capitolo in particolare fu molto difficile da chiudere: il perseguimento dei criminali di guerra in un contesto sociale dove il popolo è forgiato da anni di conflitti etnici. Contravvenendo alle nozioni di identità nazionale dell’elettorato, i governi possono incorrere in costi di politica interna ai quali essi danno maggior peso rispetto alle ricompense elargite della condizionalità. Più questo strumento ha cercato di intrufolarsi in aree politiche legate all’identità nazionale, più il suo potere di sviluppo è stato limitato. Lo stesso si può dire per la popolazione: il sostegno per l’adesione all’UE fu molto diffuso in tutta la regione, ma ogni qual volta che la condizionalità fu associata a questioni simbolicamente cariche (come l’estradizione al tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia) il supporto calò fortemente.
Un’altra differenza importante coi round di adesione precedenti è che nel caso dei paesi dell’Europa sudorientale, la condizionalità non solo fu applicata in una fase precedente del processo di adesione (durante il processo di stabilizzazione e associazione) ma ebbe anche una portata più ampia. Questo contribuì all’indebolimento della sensazione di ricompensa e di conseguenza all’arretramento della prospettiva di adesione. Il rinnovo di una prospettiva credibile di adesione all’UE dovrebbe essere il primo obiettivo dei riformatori dell’UE.
All’infuori delle evidenti limitazioni strutturali del regime di condizionalità, i progressi nei capitoli chiave dei vari paesi sono molto lenti. Prendendo come esempio la Serbia, considerata il naturale successore della Croazia, invece di progredire in questioni come la corruzione, la libertà di stampa o la governance, si è imbarcata in un costante declino[3]. Uno dei problemi più gravi da affrontare è l’ambiente asfissiante in cui operano la stampa e i media, caratterizzato da epurazioni di giornalisti indipendenti e pressioni su quelli rimasti. La governance nazionale è in declino negli ultimi cinque anni e la centralizzazione del potere nelle mani del presidente Vucic non è affatto vicina a fermarsi, rafforzata dal suo monopolio dell’apparato mediatico che lo tiene in campagna elettorale giorno dopo giorno.
Una condizione simile, se non peggiore, riguarda la Bosnia-Erzegovina. Negli ultimi anni, il paese è rimasto bloccato in una situazione di stallo politico, con i suoi cittadini che si sono trovati nel solito fuoco incrociato della retorica etno-nazionalista[4]. La governabilità nel paese è in una situazione disastrosa, sia a causa dell’ingombrante assetto istituzionale post-Dayton, sia perché le élite politiche sembrano più interessate al proprio tornaconto anziché risolvere gli evidenti problemi del paese. Per fare un esempio, l’Assemblea parlamentare non ha fatto alcuno sforzo nel partecipare al processo decisionale, con le sue poche sessioni del 2019 concentrate solo sulla revisione del bilancio per mantenersi.
L’esempio della Bosnia è emblematico della questione principale che colpisce tutta la regione e la tiene lontana dal raggiungere l’adesione all’UE. Il problema più grande è la mancanza di volontà politica delle élite locali. Se non percepiscono più l’adesione all’UE degna come un decennio fa, molto più spazio sarà lasciato ad altre potenze come la Turchia o soprattutto la Cina per intrufolarsi nella politica regionale dell’area. Dopo tutto, se la Slovenia è ora parte dell’UE e della NATO è stato grazie alle élite politiche che hanno usato adeguatamente i media e le istituzioni per ottenere il consenso dei propri cittadini, portando a un referendum in cui il 90% è risultato a favore dell’adesione all’UE[5]. Se da un lato queste élite hanno buona parte della responsabilità del cattivo stato di salute in cui versano i Balcani occidentali, il loro ruolo è in parte facilitato da Bruselles che non ha ancora chiaramente stabilito la policy da adottare nella regione e il suo futuro nell’UE.
La regione è, in fin dei conti, stabile. Ma la vera domanda è: per quanto si potrà barattare la democrazia a favore di maggior stabilità? La riposta purtroppo non è così scontata e anzi sembrerebbe affermativa. In tal caso, può essere ancora credibile l’intenzione di ammettere in futuro la regione tra i 27?
[1]Solveig Richter & Natasha Wunsch (2020): “Money, power, glory: the linkages between EU conditionality and state capture in the Western Balkans”, Journal of European Public Policy.
[2] Schimmelfennig, Frank & Sedelmeier, Ulrich. (2004). ‘Governance by Conditionality: EU Rule Transfer to the Candidate Countries of Central and Eastern Europe’. Journal of European Public Policy, pp 661-679.
[3] Freedom House, NiT 2020 report: Serbia. https://freedomhouse.org/country/serbia/nations-transit/2020
[4] Freedom House, NiT 2020 report: BiH. https://freedomhouse.org/country/bosnia-and-herzegovina/nations-transit/2020
[5] European Western Balkans, “Western Balkans should join the EU, but regional political elites should do their job”, settembre 2020.