di Riccardo Arcobello
La crisi sanitaria ed economica che attanaglia il mondo da un anno a questa parte sembra aver sconvolto gli equilibri internazionali: è opinione diffusa che la pandemia abbia cambiato definitivamente il corso delle nostre vite, alterando non solo le abitudini personali, ma anche gli assetti geopolitici preesistenti. E così si diffonde la percezione di una crisi definitiva della leadership americana nel sistema internazionale, accompagnata parallelamente dalla crescita russa – a lato – e della Cina in modo particolare, annunciata come la grande potenza di riferimento mondiale capace di dissestare ed invertire le gerarchie. Sebbene questa narrazione appaia suffragata per lo più da motivazioni propagandistiche piuttosto che da elementi realmente tangibili – non a caso è dialettica diffusa da ben prima che un virus “sconvolgesse” l’esistenza – ci sono comunque elementi che non giocano a favore di Washington.
È innegabile che gli Stati Uniti negli ultimi dodici mesi abbiano offerto una pessima immagine di sé, ancor più di quanto fossero già abituati a fare in passato. I fatti di Capitol Hill – in cui un gruppo di scalmanati ha assaltato, con o senza il beneplacito delle forze dell’ordine, il Parlamento della potenza mondiale di riferimento – sono solamente gli ultimi istanti di una serie di errori e difficoltà piuttosto imbarazzanti. Nell’ultimo anno lo Stato americano è apparso agli occhi del mondo – sia agli alleati che ai nemici – devastato internamente dai decessi causati dal virus, afflitto dalla recessione economica più grave da molti decenni a questa parte, incapace di gestire tensioni sociali interne e quindi di bilanciare le diverse nature delle necessità popolari, in un contesto in cui lo stato d’eccezione imponeva una visione nuova ed un approccio ben più energico. Allo stesso modo le accuse (protratte per lungo tempo) dell’ex Presidente Trump in merito all’origine del virus apparivano più come un chiaro segno di debolezza, come se l’incapacità americana nel gestire la pandemia e nel contenere le crepe derivanti da essa nell’assetto geopolitico non riuscisse a produrre null’altro che un goffo tentativo di offuscare il soft power cinese sulle questioni sanitarie. Pertanto, mentre l’ex POTUS dichiarava che la crisi causata dalla pandemia di Coronavirus “è stata peggiore per il paese di Pearl Harbor e degli attentati dell’11 settembre” – evidenziando come si trattasse de “il peggiore attacco che l’America abbia mai subito” – sul versante nemico Pechino si adoperava nell’arruolamento di nuovi alleati lavorando sui vaccini e cercando di mettere occhi e mani sul continente europeo (riuscendoci, a dire il vero, in misura abbastanza limitata).
Ed è proprio sui vaccini che si sta giocando attualmente la vera partita geopolitica, così come si è giocata negli ultimi mesi. Pechino punta a diffondere il proprio vaccino in molti paesi asiatici, quali – fra gli altri – Myanmar, Pakistan, Thailandia, Vietnam, Cambogia, Indonesia e Laos. Ma non solo: al regime cinese si affidano anche Marocco (tramite accordo per la produzione), Algeria, Messico e in parte anche il Brasile. Sul versante russo, invece, Mosca si è assicurata la preziosa collaborazione di Corea del Sud, India e anche di una buona fetta di Sud America: Argentina, Bolivia e Cile, oltre al Paraguay. Sul versante europeo i membri dell’Unione continuano ad affidarsi a Washington per la propria campagna vaccinale; Pzifer-Biontech e Moderna sono tuttora i vaccini più affidabili e sicuri a disposizione e, sebbene l’Ungheria faccia affidamento (anche) sul vaccino russo, il continente europeo si presenta ancora oggi saldamente ancorato agli imprescindibili valori atlantisti a cui ha appaltato la propria difesa dalla Grande Guerra in poi.
Il quadro visibile ad oggi è dunque ricco e complesso, con la Cina che ambisce al trono a stelle e strisce e la Russia che segue da vicino. Tuttavia, come detto in precedenza, al di là di sfarzose operazioni propagandistiche le differenze e le certezze preesistenti permangono ancora oggi, con buona pace di chi vorrebbe lo sfaldamento della potenza simil-imperiale americana. Gli Stati uniti hanno ancora oggi – e ne avranno probabilmente per molto tempo ancora – caratteristiche ineguagliabili per qualsiasi contendente. Per essere una grande potenza, nello specifico la grande potenza per eccellenza, sono indispensabili ma non sufficienti elementi quali la potenza economica o una vastità territoriale che permetta di avere un bacino ampio dal quale prelevare risorse o nel quale ritirarsi in caso di attacco o, ancora, nel quale nascondere armi chimiche o altro. E se da questi punti di vista la Cina è competitiva – anche in riferimento alle mire espansionistiche in territorio africano e non solo – è altrettanto importante sottolineare come molti altri elementi concorrano allo status di egemone. La reputazione è un aspetto fondamentale per costruire alleanze solide e durature: nel caso cinese pesa ancora molto (troppo) l’approccio autoritario nei confronti di realtà come Hong Kong o lo sterminio degli Uiguri, mentre dall’altro lato agli Stati Uniti è sempre stata concessa pressoché qualsiasi azione da parte degli alleati. Vi è poi l’aspetto legato alla tradizione militare e navale, all’esperienza sul campo di battaglia e anche nelle trattative post belliche. La Cina da questo punto di vista è troppo distante dalla tradizione americana: Pechino sta aumentando notevolmente la spesa militare per ridurre il gap – consapevole che per ambire a sostituirsi a Washington nello scacchiere internazionale debba necessariamente finanziare il proprio arsenale – ma per fare ciò è inevitabile che rinunci a spese di welfare che sopperiscano alle condizioni della popolazione cinese, in genere molto povera e spesso vicina al collasso. L’assenza di una tradizione bellicosa da parte della Cina la rende poco appetibile agli occhi di potenziali nuovi alleati di rango elevato, consapevoli che in un’arena internazionale anarchica e colma di insidie una potenza dominante debba saper farsi trovare pronta in qualsiasi momento al combattimento: Pechino è latitante nelle operazioni di polizia internazionale.
Le differenze sostanziali tra le due grandi potenze che compongono il sistema bipolare meriterebbero maggiori approfondimenti, in particolar modo per quanto riguarda le centinaia di basi militari e navali che Washington vanta in tutto il globo e che nessun’altra entità statuale possa anche solo avvicinare. Ad oggi però, con una pandemia ancora in corso e un cambio di regia alla Casa Bianca, affermare che la Cina (o la Russia o addirittura l’Iran e la Turchia) possa ambire al ruolo di egemone è decisamente azzardato. Il sistema bipolare – multipolare o apolare a seconda dei punti di vista – mostra una marcata asimmetria a favore dell’egemone statunitense.
Foto in evidenza: Vignetta di Ingram Pinn.
Fonti: rielaborazione SIR su informazioni di:
ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale;
IAI – Istituto Affari Internazionali;
Limes – rivista italiana di geopolitica.